martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale!

 

Un mondo di auguri a tutti,
con un canto della tradizione interpretato da un Grande!


lunedì 24 dicembre 2012

Raccontino di Natale.


Molte volte nei discorsi con gli amici ricordiamo il Natale delle nostra infanzia. Questo che racconto era il mio Natale "di allora"...con qualche commento aggiunto.
rp

Era difficile che la notte di Natale non ci fosse la neve.
Ho sempre vissuto questo “magico” momento nella campagna della “terra mandrogna” per eccellenza, la piana alessandrina d’Oltrebormida: la mia Fraschetta. Tra la nebbia.
Terra rossa di gelsi e gaggìe, di fossi con le rive piene di erbe che si allungavano fino a toccare l’acqua gelata.
Da bambino, la mia cattolicissima maestra (la Gulminetti) ci insegnava i canti che ancora ricordo. Ci invitava a raccogliere il muschio per ornare il presepio. Povero e indimenticabile presepio! Con le statuine di gesso, semplici e ingenue com’era la religiosità di quel mondo contadino che era rimasto indenne da quella rancorosa e devastante propaganda degli anni successivi che, forse, ha il gelo dei nostri campi a Natale, ma non ne ha la pacificante e feconda poesia.
La “Signora Maestra”, al pomeriggio, ci accompagnava alla Novena. Le strade erano di ghiaia; le avrebbero asfaltate poi (non tutte) negli anni ’60/’70. Arrivavamo alla chiesa che era già buio. I libretti erano un po’ consunti (c’era il segno di mani antiche sull’angolo “in basso” della pagina dispari) ma quelle “parolone”: “Præparatio ad Nativitatem Domini nostri Jesu Christi - Novendiales preces ante Solemmnitatem di cui non conoscevamo la traduzione, erano per noi l’inizio delle Feste, l’introduzione necessaria alla nascita del Signore, ed in qualche modo il legame ad un ben definito ciclo temporale che ricominciava.
Per la verità il primo assaggio delle Feste incipienti era il giorno di S. Lucia, quando di ritorno da Alessandria ci portavano il lacabòn, quel dolce alessandrino fatto di miele, zucchero e bianco d’uovo. Una chicca!
Al termine della celebrazione, le donne, le ragazze grandi, pochi uomini e noi bambini cantavamo: “Venite o Buon Gesù, a nascer nel mio cuore. Venite, Venite! E non tardate più ! E nel venire che fate? Tutto in me rinnovate a ciò che possa anch’io amarvi, o Gesù mio.”.
Il dare del “voi” a Gesù Bambino non ci toglieva né la fiducia affettuosa né la dolcezza dell'attesa. Era il tratto naturale di un mondo ormai completamente scomparso, che si intonava con la semplicità dell'anima e con gli abiti scabri di quegli uomini e di quelle donne use a parlar poco ed a lavorare molto. E le parole “tutto in me rinnovate” trovavano anche una loro - come dire - materiale consistenza nella consuetudine per le ragazze di iniziare al principio della Novena la confezione di un capo di abbigliamento (normalmente, una camicetta) da arnuà (rinnovare, appunto) il giorno di Natale. Valeva per tutti. Ognuno doveva avere il giorno di Natale qualcosa di nuovo. Era un modo - magari, inconsapevole - per esprimere una fede non solo in “spirito” ma anche in “verità”.
La maestra ci faceva poi comporre una letterina, chiamata per generazioni la “letterina di Natale o a Gesù Bambino”. Dovevamo nasconderla sotto il piatto di papà nel pranzo di Natale, quando la famiglia, anche la più riottosa e divisa, si riuniva intera e pacifica a mangiare il risotto o la pasta in brodo di cappone o di carne (gli agnolotti, a S. Stefano), la mostarda ed il torrone, con le sue belle lettere stampigliate in oro ed i colori che sembravano smalti.
Essi - e quello stare insieme così raro, quel pranzo così fisso nella sua sacralità - creavano un clima di festa pacifica, intima e dolcissima. Il giorno di Natale nessuno poteva lavorare: nemanco il tavolo del pranzo veniva spreparato e le stoviglie non erano lavate, nelle stalle gli animali non erano governati.
La sera della Vigilia nessuno usciva di casa, se non per la Messa di mezzanotte.
Tutto doveva essere fermo in quel momento che ha diviso il tempo in un "prima" ed un "dopo".
Anche i bar e le osterie, temuti da tante mogli-contadine come luogo di perdizione dei mariti, restavano chiusi. Sarebbe stato sfacciato vedere in quella notte il banco della mescita con il fumo e le grida. Non c’era bisogno che alcuno lo raccomandasse. La gente aveva ancora valori condivisi.
Solo che, davanti al gregge, cominciavano ad apparire i lupi: l’indifferenza se non l’odio per tali valori, le mode alienanti, spietate e ossessive del consumismo più devastante.
Ma quell'angolo di campagna con i suoi orizzonti invernali vasti, con la solitudine spoglia dei campi e degli orti, appariva riservato, ancora protetto, come un'oasi. Per fortuna la Maestra raccoglieva noi bambini con autorevolezza affettuosa e incontestata.
 C'erano Natali con molta neve, e la gente andava in chiesa a piedi. Io mi ritenevo molto fortunato perché abitavo a non più di sei o sette metri dalla chiesa. Lì ci aspettava l'incanto dell’esposizione solenne del “Bambino”. Sì, perché il presepio non c’era in chiesa: le stauette dei pastori, degli artigiani e degli animali potevano distrarre l’attenzione da quella più piccola di tutte: Gesù “infante”. Il presepio si faceva a casa e nelle chiese francescane perché proprio il Serafico Patriarca Francesco lo “inventò” (si diceva) a Greppio.
Il Parroco, don Pèder Ferraris - Cappellano pluridecorato della guerra del ‘15, amatissimo e valente “musicante”, come amava dire di sé - con fermezza, intonava e dirigeva (mentre suonava l'harmonium) quel canto dolcissimo in cui, una volta tanto, si impegnavano anche gli uomini: Regem venturum Dominum, venite adoremus (in realtà era il canto delle profezie more responsoriali, cioè intercalato dall'antifona, appunto, Regem... che si può sentire cliccando qui.
Il giorno di Natale ed in quello dell’Epifania al termine delle Messe, si andava a “baciare il Bambino”.
Non era casuale: perché si trattava dei giorni in cui Cristo si è manifestato alle genti: prima ai poveri, cioè ai pastori; poi, ai potenti cioè ai Re Magi. Mi colpiva vedere il Parroco che era "grande e grosso", porgere ai fedeli quel Gesù Bambino di ceramica così delicato ed indifeso da sembrare leggero e soffice.
E, in fila, mentre si aspettava, non si cantava "Tu scendi dalle stelle" che (ancorchè composto da un Santo, Alfonso Maria de' Liguori) allora era considerato un canto tipicamente napoletano, ma si cantava una dolce e serena ninna-nanna: Dormi, dormi bel bambin... che al termine della terza strofa ci faceva cantare:...Redentor, Ti bacio il viso.
Il canto che rappresentava i "pensieri" della Madonna mentre guarda il suo Bimbo appena nato,  interpretava l’atto che veniva compiuto, realizzando una sorta di mimesi liturgica.
Al termine ne troverete una magnifica versione interpretata da un coro...della Repubblica Ceca.
Pensiamoci bene: un canto della tradizione popolare delle nostre campagne cantato in un Paese, un tempo d'oltre-cortina...
La fede unita alla musica compie cose, a dir poco, incredibili.
 Era una delle poche volte in cui quegli omòni, rudi e ruvidi contadini, sapevano mettere da parte il rispetto umano e cantavano a voce piena (il Magnificat a squarciagola diventava un vero grido di esultanza!), con sentimento, quello stesso che avevano imparato dalle loro mamme e dalle loro maestre.
Perché - almeno da noi - le maestre insegnavano a leggere, a scrivere ed a far di conto, ma insegnavano anche l'educazione, il rispetto e la fede. Oggi che molte di loro si sono “emancipate”, invece di continuare quella preziosa missione, ai bambini insegnano halloween, babbo natale, gli elfi e le renne alate: cose sciocche, senza spessore umano, inconsistenti come la cultura che le esprime.
Era davvero indimenticabile quel Magnificat.
La definizione di quel modo di cantarlo l’ho trovata anni dopo leggendo il commento al Salmo 32 di S. Agostino, là dove - trattando del  jubilus - il S. Vescovo di Ippona afferma: “il giubilo è quella melodia con la quale il cuore effonde quanto non gli riesce a parole”.
Questo conoscevano i nostri vecchi quando cantavano e pregavano in latino. Senza conoscerne la traduzione, ne sperimentavano l’anima, il senso intimo.
I giorni seguenti il Natale c’era poi un gran da fare innanzitutto per le Quarantore. Gli ultimi tre giorni dell’anno erano dedicati a questo pio esercizio.
La chiesa già solenne di per sé per il Natale, lo diveniva ancora di più per l’Esposizione eucaristica.
Il grande ostensorio dono ottocentesco della famiglia Rossi (utilizzato solo in questa occasione ed alla processione del Corpus Domini) splendeva e sembrava trasfigurarsi in mezzo ai lumi ed all’incenso. Ogni sera, dopo il discorso del sacerdote predicatore (negli anni ’30 venne anche don Orione di cui don Pietro era amico, a svolgere questo ufficio) la benedizione con il Tantum ergo, cantato - solo in questa occasione - con un tono solenne anche in questo caso dagli uomini con il cosiddetto "controcanto".
L’altro impegno che avevamo nei giorni dopo Natale era quello di raccogliere i risparmi dell'anno, perché ci attendeva l’Epifania. In essa si celebra la manifestazione del Signore a tutte le genti. Sapevamo, guardando il presepio in casa, che con l'Epifania il Signore, attraverso i suoi angeli, cioè i suoi inviati, non chiama soltanto i pastori, la lavandaia, la pollivendola, il calzolaio... chiama i Re, i sapienti, chiama uomini di tutte le razze e di tutti i continenti. Uno dei Re Magi, infatti, è nero.
All'Epifania (nella campagna della mia infanzia mai ho sentito parlare di befane!), dunque, si raccoglievano i risparmi. Essi ci erano costati la privazione (ricordate: i “fioretti”? Molto educativi ! Ci insegnavano fin da piccoli la rinuncia e i sacrifici inevitabili nella vita) di una mela, di una liquirizia, di un pezzo di quella cioccolata bianca e nera o con le nocciole tritate che si tagliava a fette....consegnavamo tutto alla Maestra e al Parroco che poi spedivano i nostri soldi ai missionari. L’Epifania non evocava streghe o cretinerie consimili. Era invece la “Giornata della Santa Infanzia”, perché ognuno di noi “adottava” un fratellino nero o giallo o rosso, il quale al battesimo avrebbe ricevuto il nostro nome. La maestra ogni anno chiamava un missionario a parlarci della vita delle Missioni d'Africa. Ricordo emozioni inconfondibili nel sentir parlare con tanto amore di quei paesi lontani, di una natura così diversa dalla nostra, di climi e animali...ma soprattutto il Padre che ci parlava dei bambini che avevano bisogno di cibo, di vestiti, di scuole ed ospedali, oltre che della nostra fede.
Oggi cosa c’è nelle festività.
Guardatevi intorno: non c’è nemmeno più la caricatura del Natale.
Come è possibile sottrarre ai nostri bambini questi incanti e queste ricchezze ! ?
Come è possibile dar loro idiozie fatte di babbi natale e di elfi ? ! 
Com’è possibile riempirli di befane e di streghe ? !
Guardateli, i nostri bambini; non meritano adulti insipienti come noi…

Dormi, dormi bel Bambin,
Re divin,
Dormi, dormi, o fantolin,
Fà la nanna, o caro Figlio
Re del ciel,
Tanto bel
Grazioso giglio.
Chiudi i lumi, o mio tesor,
Dolce amor,
Di quest’alma, altro Signor,
Fà la nanna, o Regio infante
Sopra il fien,
Caro ben,
Celeste amante.
Perchè piangi o Bambinel,
Forse il gel
Ti dà noia, o l’asinel ?
Fà la nanna, o Paradiso
Del mio cor,
Redentor,
Ti bacio il viso.


Il testo (completo è ben più lungo: è composto da diciassette strofe) è tratto da "Lira Sacra" di Fabiani edito in Corsica a Bastìa nel 1879, con centotredici canti. Succesivamente fu pubblicato nel 1915, ma solo con ottanta canti,  dalla Ed. Tipografia dell'Immacolata; Levanto (SP).

Nella foto: gelsi con la neve.
(1): da “Bello dentro, fuori meno” di C. Caputo.

lunedì 17 dicembre 2012

Paperoni d'Italia.

(AGI) - Roma, 13 dic. - Le famiglie italiane sono sempre più povere ma soprattutto crescono le diseguaglianze: solo al 10% va il 45,9% della ricchezza complessiva. Sono i dati che emergono dal Supplemento al Bollettino statistico della Banca d'Italia. Alla fine del 2010 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 9,4% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9% della ricchezza complessiva. "La distribuzione della ricchezza, si legge nell'analisi, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; all'opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata". Il numero di famiglie con una ricchezza netta negativa, alla fine del 2010 pari al 2,8%, risulta invece in lieve ma graduale crescita dal 2000 in poi. Secondo le stime disponibili comunque, segnala la Banca d'Italia, nel confronto internazionale l'Italia registra un livello di disuguaglianza della ricchezza netta tra le famiglie piuttosto contenuto, anche rispetto ai soli paesi più sviluppati. La crisi inoltre continua a erodere la ricchezza netta delle famiglie italiane che nel 2011 ha subito un calo dello 0,7% a prezzi correnti e del 3,4% in termini reali. Nel dettaglio, alla fine dell'anno scorso il dato aggregato era pari a circa 8.619 miliardi di euro, corrispondenti a poco piu' di 140 mila euro pro capite e 350 mila euro in media per famiglia, tornando più o meno sui livelli di fine anni Novanta. Dal 2007, quando la ricchezza raggiunse il suo valore massimo in termini reali, la riduzione è pari al 5,8%. E, secondo stime preliminari, un'ulteriore diminuzione dello 0,5% in termini nominali si è avuta nel primo semestre di quest'anno. Nel corso del 2011, l'aumento delle attività reali (1,3%) è stato più che compensato da una diminuzione delle attività finanziarie (3,4%) e da un aumento delle passività (2,1%). In particolare, alla fine dello scorso anno, le attività reali rappresentavano il 62,8% del totale delle attività e le attività finanziarie il 37,2%. Le passività finanziarie, pari a 900 miliardi di euro, erano il 9,5% delle attività complessive. Nel confronto internazionale, sottolinea Bankitalia, le famiglie italiane mostrano un'elevata ricchezza netta, pari, nel 2010, a 8 volte il reddito disponibile, contro l'8,2 del Regno Unito, l'8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone, il 5,5 del Canada e il 5,3 degli Stati Uniti. Esse risultano inoltre relativamente poco indebitate, con un ammontare dei debiti pari al 71% del reddito disponibile (in Francia e in Germania è di circa il 100%, negli Stati Uniti e in Giappone è del 125%, nel Canada del 150% e nel Regno Unito del 165%). Tra la fine del 2010 e la fine del 2011 la ricchezza pro capite è diminuita dell'1% a prezzi correnti e del 3,7% a prezzi costanti. Sempre a prezzi costanti, la ricchezza netta pro capite nel 2011 è comparabile con i livelli che si registravano nella prima metà del decennio scorso. La ricchezza media per famiglia ha presentato una dinamica meno favorevole, essendo diminuita nel corso del 2011 dell'1,6% a prezzi correnti e del 4,3% a prezzi costanti. Il livello di ricchezza per famiglia del 2011 a prezzi costanti è simile a quello della fine degli anni novanta. Deve essere tuttavia tenuto presente che fra il 1995 e il 2011 il numero di famiglie italiane è cresciuto di quasi 5 milioni di unità, soprattutto a causa della riduzione della dimensione media delle famiglie, passata da 2,9 a 2,5 individui. Secondo il Codacons questi dati sono "sconcertanti". Per l'associazione di consumatori "i maggiori sacrifici necessari per risanare i conti pubblici andrebbero chiesti a chi se li può permettere e non certo a quelle famiglie povere che detengono appena il 9,4% della ricchezza totale. Obiettivo non certo perseguibile se ci si ostina ad aumentare una tassa proporzionale e non progressiva come l'Iva". Il dato, aggiunge il Codacons, "diventa poi sconvolgente se si abbina a quello secondo il quale dal 2010 al 2011 la ricchezza delle famiglie e' calata del 3,4% ed il 2,8% è totalmente in rosso". Per questo il Codacons chiede al Governo di "introdurre un contributo straordinario di solidarietà per questo 10% di famiglie italiane ricche e propone di introdurre, una tantum, un'aliquota marginale Irpef superiore al 43% per chi, ad esempio, dichiara piu' di 90.000 euro. Un gettito aggiuntivo da destinare integralmente ad aiutare chi è in difficolta'". (AGI) .

venerdì 14 dicembre 2012

Trata bürata....


Oggi nevica e, si sa, il mantello avvolgente della neve ci rimanda a "quando eravamo bambini". Forse più che di un mantello si tratta di una vera e propria "placenta virtuale" nella quale rientriamo. La neve rimanda ad aspetti piacevoli e fiabeschi: il candore, lo splendore ed il paesaggio immacolato, i fiocchi che danzano e riempiono l’aria, la sofficità del manto che suggerisce protezione e silenzio, e questo rimanda a purezza, ingenuità, romanticismo, aspetti infantili, ricordi ed  ancora…..sentimenti di amore e di amicizia, virtù e qualità del cuore, generosità e misticismo. Mah...
Ed i ricordi vanno alle filastrocche, non tanto quelle scolastiche ma quelle dialettali che sentivanno dire dai vecchi.
Eccone una famosissima delle nostre parti dell'Oltrebormida.
E' nelle tre versioni in uso da noi, con la relativa traduzione:


Trata bürata
e cóuua di’ na gata,
gata näira fa candäira,
pän e päss fa tüdäsch,
fa tüdäsch e tüdeschen,
tròta, tròta buraten!
 

Trata burata
La coda di una gatta
Gatta nera fa candela,
pane e pesce fa tedesco,
fa tedesco e tedeschino,
trotta trotta burattino.

Oppure:

Trata tratóra
pulenta e bergunsóla,
pulenta e marleucc,
i són cuntent teucc.


Trata tratora
polenta e gorgonzola
polenta e merluzzo
sono contenti tutti.


Oppure, nell'area di Cascinagrossa-Litta Parodi:

Trata tratóra,
e mata ch’ e va a scóra,
e va a scóra al Bosch,
porta a cà na rama d’bosch,
o na rama d’sanguinen,
da bat el cü al pupunen.


Trata trafora,
La bambina che va a scuola,
va a scuola a Bosco,
porta a casa un ramo d’albero
o un rametto di sanguinello
da picchiare il sedere al bambinello.


P.S.: il testo è stato fornito, a suo tempo, da Luciano Fenile. Grazie!
Chi vuole saperne di più sulle filastrocche dal punto di vista linguistico ed antropologico, legga: qui.
E' davvero, davvero interessante.

mercoledì 12 dicembre 2012

La filosofia del...pernacchio.

Dobbiamo dire la verità: raramente abbiamo trovato un pezzo come questo tratto da "Ragusanews". Per scrivere in questo modo (è firmato con lo pseudonimo: Santhippe-Socrathe) bisogna conoscere davvero la storia della filosofia ed avere spirito, cultura ed intelligenza per riuscire a declinarla ed argomentarla in una forma così sottilmente - come dire - goliardica.
E noi vecchi "tiratardi", figli della Piazzetta, queste cose le apprezziamo, le gustiamo intimamente.

Speriamo anche voi.
E’ veramente delizioso.

STORIA DELLA FILOSOFIA DEL PERNACCHIO
DA ARISTOTELE
A CACCIARI

Il nostro doveroso omaggio va oggi alla Grecia, culla della civiltà occidentale. L'Ellade arcaica, in cui hanno visto la luce le arti, la letteratura, il teatro. E la filosofia. E proprio in questo paese, Eldorado della cultura, ha avuto origine questa branca fondamentale e imprescindibile nell'ambito della speculazione: la filosofia del Pernacchio. 'O pernàkios, argomento sotteso al pensiero dei più eccelsi philòsophoi, il cui cammino, attraverso deviazioni inevitabili nei vari paesi dell'Europa, traccia un fil rouge immaginario dalla sua fonte ellenica fino alla immortale Napoli.

Per gli Aristotelici il Pernacchio include il rapporto con gli altri. Ovvero, il Pernacchio è dialettica. Posso dedurre e indurre le cause che conducono al Pernacchio anche da solo, ma per esplicitare il contenuto del Pernacchio ho bisogno degli altri.
Platone sostiene che il Pernacchio è la causa finale, il motivo per cui avviene è il suo fine stesso; la causa finale di un Pernacchio è esternare l’idea del dissenso, dare forma alla critica esplicita; l’idea del Pernacchio è la causa finale del Pernacchio.
Epicuro distingue tra Pernacchio cinetico o in movimento, e Pernacchio catastematico o stabile. Ogni Pernacchio è di per sé un bene, ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi. Contrariamente ai cirenaici, che indicavano nel Pernacchio in movimento il piacere, ovvero, l'obiettivo da perseguire, Epicuro ripone il Fine nel Pernacchio statico o piacere catastematico. Solo nel Pernacchio catestamatico l’uomo risolve la completa soddisfazione del desiderio, che di per sè é piacere.
Per i dotti della semiotica il Pernacchio è quella cosa che, nella comunicazione, lascia il segno. Per Kant il Pernacchio é uscire dallo stato apparente di minorità intellettuale, divenire maggiorenni sul piano razionale e imparare a pensare con la propria testa. Kant definisce così il Pernacchio : l' uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso [ ... ] abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Il Pernacchio, dunque, riscatta l’uomo e la sua intelligenza. E nella sua Critica alla ragion pura egli dirà che il Pernacchio è l' unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà.
Con Hegel la fenomenologia del Pernacchio si sostanzia di una valenza idealistica: esso trova il suo fondamento nelle idee, nella mente dell'individuo. Hegel descrive il cammino che deve intraprendere il Pernacchio che, partendo dallo spirito, raggiunge la piena consapevolezza di sè e della realtà nella realizzazione fenomenica, nella sua esplicitazione: dal noumeno (l'idea) al fenomeno (la realtà). Tutto ciò avviene in tre fasi: la tesi, che afferma ciò che si conosce, l'antitesi, che mette in discussione ciò che si pensa di conoscere e infine l'apoteosi, l'esplosione della sintesi: il Pernacchio!
Ma il vero trionfo del Pernacchio avviene nel momento della filosofia positivistica, quando i pensatori, a partire da Comte, studiano scientificamente le sue potenzialità eudemonistiche.
Attraverso la legge deterministica applicata al Pernacchio si può creare una società felice. L'uomo, anche il più diseredato, l'appartenente all'infimo sottoproletariato urbano può, attraverso la causa- effetto del Pernacchio, conseguire la misura liberatoria della sua esistenza e la piena realizzazione di sè.
Per Marx il Pernacchio è epifenomeno dell’economia. Solo partendo dal Pernacchio è possibile spiegare il Capitale. Non è la coscienza di essere proletari che determina il Pernacchio, ma è il Pernacchio a determinare la coscienza del proletariato. Il Pernacchio serve a ricercare quelle condizioni necessarie che hanno reso inevitabile la condizione di servaggio (la causa) e che ne rendono non meno inevitabile il superamento (il fine). Il Pernacchio è la Sveglia dei popoli. Diventerà il motto del Partito Comunista, e sarà metabolizzato dalla Storia e dal pensiero dormiente di tutto il novecento fino al “Cominciamento” del filosofo dei nostri tempi, Massimo Cacciari, attuale Sindaco di Venezia; per Cacciari il Pernacchio non è solo il fine, la cosa ultima, ma è anche l’Inizio, ovvero, il Pernacchio è un continuum o, come dice Lui, “l’infinità” stessa della cosa nella sua inalienabile e intramontabile singolarità, in movimento”. Viene così confutata l’idea del Pernacchio statico d’Epicuro, riprendendo il paradigma cirenaico, o teoria del Pernacchio in movimento. Per tutti, da Aristotele a Cacciari, il Pernacchio è liberazione, è anche Sveglia dei popoli, è soprattutto Libertà. Per Eduardo, no! L’attore napoletano sintetizza 2.500 anni di pensiero filosofico complesso in un’unica e semplice enunciazione: il Pernacchio è una convenienza!
Il compito dell'artista, dell’uomo, consiste, in ogni caso speciale, nella pratica applicazione di questa legge d'intima, di assoluta, d'infrangibile convenienza, che è idea, fine, causa e piacere, Cosa Ultima, Inizio e Cominciamento, principio stabile e dinamico, soprattutto dialettica di libertà e di liberamento. Con metodo.
«Il Pernacchio deve essere di testa e di petto, ovvero deve fondere insieme cervello e passione, ragione e follia, vi posso anche dire, in tutta confidenza che il vero Pernacchio non esiste più, quello attuale, corrente si chiama pernacchia, è una cosa volgare, brutta, il Pernacchio classico è un’arte!
Eduardo: "Siamo.. tre o forse quattro a conoscerlo profondamente e praticarlo in tutta Napoli il che vuol dire in tutto il Mondo. Insomma il Pernacchio che dobbiamo fare a questo signore deve significare: “tu sì a schifezza, ra schifezza, ra schifezza, ra schifezza e l’uòmmene! Mi spiego?”…»

Solo nel momento felice del Pernacchio ogni uomo è vero.

Ecco qui la celebre "lezione" di Eduardo:

 
Bellissimo!

E' una clip da "L'oro di Napoli" (1954), un classico della storia del cinema tratto dalla raccolta omonima di racconti di Giuseppe Marotta (1947) e adattati per il cinema da Cesare Zavattini.
Dei sei episodi previsti, uno, "Il funeralino" fu escluso dal montaggio. Ogni episodio ha come interprete principale un nome di primissimo piano: Toto' ne "Il guappo", Eduardo De Filippo ne "Il professore" (questo), Sophia Loren in "Pizze a credito", Vittorio De Sica ne "I giocatori" e Silvana Mangano in "Teresa".
Il luogo dove è stata girata questa scena è nel bel mezzo del centro storico di Napoli, precisamente in Vico Purgatorio ad Arco. Oggi, il basso dove Eduardo recita, è in affitto, ed è un garage di motorini.

Regia: Vittorio De Sica.
Soggetto: Giuseppe Marotta.
Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Giuseppe Marotta, Vittorio De Sica.
Produttore: Dino De Laurentiis, Carlo Ponti.

Visto che nomi hanno lavorato attorno a questa "scenetta"!
Ah, grande Eduardo e grande cinema italiano!

Post scriptum:

Sulla rete si trova l’M.L.P. (Movimento per la Liberazione del Pernacchio): qui.
Nel suo manifesto si legge fra l’altro: “Contro questa cultura dell'ovvio, della rissa e della truculenza, c'è una sola vera arma di difesa: il pernacchio. Il pernacchio è popolare, rivoluzionario, democratico. Uno solo, se fatto a dovere, delegittima all'istante il potere tronfio, il linguaggio truculento, il tecnicismo banale mascherato da politica.
Li stende tutti a terra lasciandoli attoniti e senza respiro. Questa cultura una volta era diffusa.
Chiunque parlasse, sapeva che nell'aria c'erano tanti pernacchi pronte a scaricarsi come un fulmine.”.
Questo un pot-pourri dei commenti.
Dissacrante e tremendamente liberatorio. Un pernacchio è una forma artistica di dissenso. Va coltivata e diffusa e quale maestro migliore di De Filippo? Ogni riferimento a fatti e fattacci recenti è dichiaratamente voluto. Invito ad accodarvi al pernacchio day...un modo come un altro per dissentire, mostrare distanza...ironizzare, dissacrare, satireggiare"...ridacchiare (che a ridere, di questi tempi, si fa peccato mortale), sogghignare, sghignazzare.
Ma sì...spernacchiare non sarà da signora...ma quando ce vò...ce vò!
Il pernacchio ha la stessa potenza e, forse, lo stesso suono delle Trombe del Giudizio, è una particella di espressività divina regalata all'umanità. La riprova è che viene usata spesso dagli uomini più vicini al divino: i pazzi, i buffoni ed i bambini.
E’ universale, possono farla uomini, donne, bambini e vecchi. È trasversale.
In molte occasioni è la soluzione ideale, perché sta a metà tra il linguaggio verbale e non-verbale, la voce e la prossemica, per scoronare situazioni, comportamenti...
Buona parte delle nostre sventure civili nascono dal fatto che non si spernacchia più, o non abbastanza. Siamo passivi, brontoliamo al bar, preferiamo delegare. Il pernacchio è critica ad alta voce, contestazione frontale, dissenso informato, consapevole, preciso, documentato, chirurgico. Il gesto, potenzialmente rivoluzionario, che unisce cervello e passione, come dice Eduardo. Anche a spernacchiare si impara. Ma la convinzione, quella nessuno la può insegnare.
Dal punto di vista linguistico:
pernacchio: vc. meridionale da vernaculum (in italiano: “vernacchio” nel D'Ambra, che lo attesta con G. B. De la Porta 1596), quindi volgare, plebeo.
“Vernacchio”, quindi, è un tipico gesto scurrile e molto antico, tanto è vero che lo descrivono Petronio nel Satyricon e Tito Livio nell' Historia magistra vitae. Molto più efficace di tante parole, in certe circostanze, il pernacchio napoletano è una vera e propria arte.
Andrea De Jorio a pag. 75 de “La mimica degli Antichi investigata nel gestire napoletano” (qui, su Google-libri si trova l'intero volume) dà la seguente definizione: “bocca gonfia d'aria e forzatamente chiusa, mano aperta e portata rovescia sul labbro superiore in modo che esso sia compresso dallo spazio che è fra l'indice e il pollice. Disposte così le dita sul labbro superiore e premendolo a replicati colpi, si viene a comprimere la bocca già oltremodo gonfia d'aria, la quale, forzata dagli urti interpellati, nell'uscirne a diverse riprese, farà gli scrosci, che sono quelli a cui si dà il nome di vernacchio”. Tale gesto è stato utilizzato anche nel cinema e nel teatro, specialmente dai celebri Totò e Eduardo De Filippo. L'idea di insulto e di oltraggio che gli si attribuisce nasce dalla somiglianza che il rumore del vernacchio produce con quello che il nostro corpo emette quando espelliamo l'aria chiusa nei nostri visceri.”.
rp

sabato 1 dicembre 2012

Lorenzo Parodi, in memoriam.

Oggi è improvvisamente scomparso Lorenzo Parodi.
Conosciutissimo, era stato a lungo componente del Consiglio di Amministrazione e sempre in prima linea in ogni attività sociale.
Con l’avanzare dell’età aveva “tirato un po’ i remi in barca” ma ancora l’anno scorso, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Consiglio, era stato componente del Collegio degli Scrutatori.
In ogni occasione il suo contributo non ha mai mancato di essere rigoroso, preciso e pacato, ben determinato nella difesa degli interessi e delle prerogative della Società.
Un fedelissimo che ricorderemo sempre con affetto e sincero rimpianto.
Alla moglie Anna, ai figli Alberto ed Andrea ed alle loro famiglie le più fraterne condoglianze.

domenica 25 novembre 2012

136° della fondazione della Società: Assemblea e pranzo sociale.

Il prossimo 10 dicembre ricorrerà il 136° anniversario della fondazione della Società. Come prevede lo Statuto e rinnovando una consolidata tradizione, ricorderemo questa ricorrenza il prossimo 8 dicembre con l’Assemblea dei Soci che si svolgerà nella Sala delle riunioni del Consiglio al 1° piano della Sede sociale, alle ore 8,30 in prima convocazione ed alle ore 10,15 in seconda convocazione.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 16, § 2, dello Statuto: “Ogni Socio - mediante delega scritta - può farsi rappresentare nell'Assemblea da un altro Socio avente diritto di voto e che non faccia parte degli organi di governo...né che rivesta gli incarichi sociali... Ogni Socio personalmente presente non può rappresentare più di un Socio.”.
All’Assemblea farà seguito il pranzo sociale che si terrà presso l’agriturismo Ca’ dell’Aglio a Momperone (Frazione Casa dell'Aglio, 2).
Il Consiglio invita tutti Soci ad essere presenti: queste occasioni di fraternità (“di famiglia”, per così dire) sono, tra gli altri, gli elementi costitutivi del nostro Sodalizio.
Il costo del pranzo (sei antipasti, due primi, sorbetto, tre secondi, dolce, vino e caffè) è di € 30; per i Soci e loro famigliari: € 27.
Per evidenti ragioni organizzative, è indispensabile effettuare quanto prima la prenotazione:
* telefonando alla Società: n. 3206044925, dalle 19 alle 21;
* oppure, scrivendo all’e.mail: sms.sangiulianovecchio@gmail.com

martedì 20 novembre 2012

Personaggi: don Gatti, di Viguzzolo.

I recenti avvenimento del conflitto arabo-israeliano hanno riportato alla memoria la vicenda umana e storica di un personaggio che, sebbene non propriamente concittadino, è comunque un conterraneo della nostra Provincia che vale la pena di rcordare.
Si tratta di un prete di Viguzzolo: don Giuseppe Gatti.
Don Gatti era nato a Viguzzolo il 19 ottobre 1839 da povera famiglia di contadini. Dopo gli studi nel Seminario diocesano di Tortona, fu ordinato sacerdote il 21 maggio 1864. Si trasferì subito a Gerusalemme dove arrivò il 20 aprile 1865 (a meno di 26 anni di età), cominciando il suo ministero nel Patriarcato latino (ricostituito il 23 luglio 1847 dal papa Pio IX) che, oltre a Gerusalemme, estendeva la propria competenza territoriale su tutta la Palestina, la Giordania e Cipro.
Inizialmente svolse il suo apostolato a Et-Taiyibe, a 10 Km da Betel, luogo importantissimo nella storia biblica in quanto legato soprattutto al ricordo dei Patriarchi: qui Abramo si fermò al ritorno da Sichem (Gen. 12, 8) e Giacobbe ebbe la prima teofanìa: il sogno della scala (Gen 28, 10-29).
Et-Taiyibe (che in arabo significa: "la buona", era nel territorio “al di qua” del fiume Giordano: la Cisgiordania; ed è identificata con la cittadina di Efrem o Efraim di cui parla l’Evangelista Giovanni nel Nuovo Testamento) è ancora oggi tutta cristiana, è situata su un colle roccioso a 869 mt di altitudine dal quale domina tutto il deserto che scende a est fino al Giordano.
Nel novembre del 1868 (a 29 anni) fu nominato parroco di Ramallah (che in arabo significa: "altura di Dio"). A quel tempo era un villaggio, pare, non molto importante. I suoi dintorni erano fra le zone più ricche della Cisgiordania e, prima dell’occupazione israeliana, era meta dei giordani benestanti che vi si rifugiavano per sfuggire al caldo della capitale, Amman. Dopo la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese è divenuta la capitale dei nuovi territori autonomi, sede del governo e del suo Presidente.
Rimase a Ramallah fino al 1871 quando, a 32 anni, fu nominato parroco di As-Salt, attualmente pure in Giordania, a una trentina di chilometri a nord-ovest di Amman. A quel tempo era il centro più importante di quel territorio che, essendo “al di là” - ad est - del fiume Giordano, si chiamava: Transgiordania. Antico insediamento romano, nel primo Ottocento divenne un attivo mercato ai margini dell’Impero ottomano e, negli ultimi decenni del secolo, fu scelta come capoluogo amministrativo (di fatto, capitale) della Transgiordania. Nella seconda metà del XIX sec. fu sede del primo ospedale e nel 1924 poté vantare la prima scuola superiore a livello universitario del Paese.
Fra il 1881 ed il 1886 completò la costruzione della Chiesa parrocchiale che fu benedetta nell’ottobre dello stesso anno. Rimase ad As-Salt fino alla sua morte avvenuta, a soli 48 anni di età, il 18 settembre 1887. Fu sepolto nella stessa Chiesa parrocchiale.
Indubbiamente don Gatti pare un personaggio la cui vicenda umana e missionaria debba essere approfondita accuratamente per mostrarne con la dovuta compiutezza le caratteristiche che certamente onorano innanzitutto il suo paese, Viguzzolo, ed, in generale, le valli del nostro Appennino, chiamiamolo così, "tortonese". Sarebbe interessante investigare sulle motivazioni, in rapporto al momento storico locale e generale, che indussero un giovane sacerdote appena ordinato, venticinquenne, a lasciare le verdi colline della sua terra per andare in Palestina, nel deserto; si badi bene: a metà Ottocento, affrontando così un viaggio che definire avventuroso, è dire poca cosa. Infatti, il Gatti, partito da Viguzzolo o Tortona a piedi per Genova, seguendo gli itinerari di viaggio consueti in quel tempo, dovrebbe aver raggiunto in nave (sicuramente ancora un veliero) Alessandria d’Egitto e di lì, via terra con i mezzi di trasporto in allora normalmente usuali (vale a dire i propri piedi o animali: cammelli, asini, etc.), arrivò a Gerusalemme.
Comunque, il primo dato che emerge è sicuramente l’esistenza di un impegno di missionarietà vissuto sulla “propria pelle” alla cui base v’è probabilmente un “comune sentire” della gente di quelle vallate del Curone. Un coraggio ed un impegno che oggi raramente è possibile trovare in un contesto (anche "giovanile", purtroppo) fatto di comodità "irrinunciabili".
Tutto questo andrebbe debitamente valorizzato soprattutto oggi alla luce dei drammatici avvenimenti che continuano a sconvolgere la Palestina e talvolta anche la stessa città dove don Gatti esercitò il suo primo ministero parrocchiale: Ramallah che, come si è detto, è la capitale dell’Autorità Nazionale Palestinese e residenza del suo Presidente.
 
 Nell'immagine: fotografia di don Gatti con il tipico abbigliamento arabo.

venerdì 16 novembre 2012

Brodo apostolorum...il brodino per i Papi.

In un post precedente (qui) si è detto di un grande cuoco del XVI sec., Bartolomeo Scappi che fu al servizio del “nostro” S. Pio V di Bosco marengo cheda Cardinale veniva chiamato ed egli stesso si firmava: l’Alessandrino.
Lo Scappi era nato probabilmente verso il 1500. Il primo evento noto della sua carriera fu nell'aprile del 1536 quando organizzò un banchetto al servizio del cardinale Lorenzo Campeggio. Servì alla corte di altri cardinali, fino a divenire cuoco delle cucine vaticane sotto il papa Pio IV Medici. Continuò successivamente, appunto, come cuoco sotto S. Pio V. Morì il 13 aprile del 1577 e fu sepolto nella chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio alla Regola, dedicata ai cuochi e ai fornai. Al culmine della sua carriera pubblicò il più grande trattato di cucina del tempo (l' "Opera") che includeva oltre mille ricette, gli strumenti di cucina e tutto ciò che doveva conoscere un cuoco rinascimentale di alto livello. Nell' "Opera" si ha la prima raffigurazione conosciuta di una forchetta e vengono introdotti nuovi metodi di preparazione e l'uso di ingredienti importati dalle Americhe. In essa inoltre Scappi definisce il parmigiano il miglior formaggio al mondo. Ebbe grande successo e venne ristampata regolarmente fino al 1643. Includendo numerose ricette di pasta, pasta ripiena, torte, e altri prodotti a base di pasta sfoglia e pasta frolla, l' "Opera" anticipa molte caratteristiche di quella che diventerà la cucina italiana moderna. Ma, come abbiamo detto, l’aspetto che più ci interessa è il servizio che lo Scappi rese a S. Pio V. Domenicano (già nominato da Paolo IV Carafa, Grande Inquisitore) arrivò come un flagello nella Roma papalina e gaudente di fine ‘500. Severo e intransigente, quasi più con se stesso che con gli altri, fustigatore dei costumi e della corruzione, rappresentò il frutto del Concilio di Trento.
La sua elezione, avvenuta nel 1566, fece tremare la Curia, niente festeggiamenti e sontuosi banchetti per solennizzare l’evento, ma il denaro delle cerimonie distribuito ai bisognosi. Addio dunque alle gozzoviglie d’ogni tipo e alle cariche onorifiche, regalate a nipoti ed intrallazzatori, per trasformare la gaudente Roma in una specie di convento di clausura. Questo Papa, che dormiva pochissimo e mangiava solo povere cose, curiosamente si ritrovò come capo della cucina il più grande cuoco del ‘500. S. Pio V, al quale imputarono un unico peccato di gola, il latte d’asina ritenuto all’epoca la panacea per il “mal della pietra” (calcoli renali di cui poi morirà; in realtà, si dice anche che soffrisse di prostata), non sappiamo se apprezzò lo Scappi in tutta la sua grandezza, o la ritenne l’ultimo sussulto pagano e godereccio di un’epoca al tramonto. Ma uno chef di tale rango, che nella prefazione della sua “Opera” fra le credenziali presenta anche quella di “Cuoco Segreto di Sua Santità Papa Pio V”, per lo stomaco papale quale ricetta avrebbe potuto preparare? Lo Scappi, in grado di imbandire qualsiasi tipo di menù, sia per gli importanti personaggi che per gli “infermi” (a cui dedica il libro VI del suo trattato), potrebbe aver elaborato per papa Ghislieri la minestrina di prezzemolo ed erbette passata alla storia come Brodo Apostolorum, dove si mescolano ad arte nutrimento e santità.
Secondo il sommesso e dimesso parere di chi scrive si tratta di una versione "aulica" della nostra più popolare panada. Ed anche del "brodetto pasquale" della cucina romana.

Eccovi, dunque, la ricetta di questo Brodo.
Per far minestra di petrosemolo et altre herbette dimandata nelle corti di Roma.
Habbisi brodo di carne, dove siano bollite cervellate (salsicce) gialle et barbaglie (gole) di porco e schiena di castrato, et esso sia tinto di zafferano mescolato con pepe e cannella e nel tempo dell’estate pongasi con esse uva spina o agresto intero; e quando saranno cotte este materie pigliasi il petrosemolo ben netto e lavato con altre erbucce e si taglino minute e pongasi in esto brodo; e levato che avverrà il bollito servasi subito con fette di pane sotto e le carni siano compartite in pezzuoli nel piatto. Avvertasi però che… starà in arbitrio se si vorrà maritare con cascio grattato e uova sbattute”.
Ed eccovi anche altre ricette dello Scappi.
Per far minestra di tortelli d'herba alla Lombarda
Piglinosi biete, & spinaci, taglinosi minute, & lavinosi in piu acque, & strucchi fuori l'acqua, faccianosi soffriggere con butiro fresco, & con esse ponasi a bollire una brancata d'herbe odorifere, & cavinosi, & ponganosi in un vaso di terra oo di rame stagnato, & giungavisi cascio Parmeggiano grattato, & cascio grasso, tanto dell'uno quanto dell'altro, & pepe, cannella, garofani, zafferano, uva passa, & uove crude abastanza; & se la compositione fosse troppo liquida pongavisi pan grattato, ma se sarà troppo soda, metavisi un poco piu di butiro, & habbiasi un sfoglio di pasta fatta nel modo che se dice nel capitolo 177. E faccianosi i tortelli piccoli, & grandi, facendoli cuocere in buon brodo di carne, & servanosi con cascio,. zuccaro, & cannella sopra.
Per fare cuocere maccaroni in più modi per giorno quadragesimale
Pigliasi una libbra di fior di farina, e una libbra di pan grattato, passato per lo foratoro minuto, impastasi ogni cosa, con acqua che bolla, oglio d'olive mescolato con un poco di zafferano e facciasi la pasta che nò sia troppo soda, ma ben mescolata sopra una tavola, e come haverà preso il caldo, faccianosi i gnocchi cioè maccaroni sopra la grattacascio, e ponganosi a cuocere in acqua che bolla cò un poco di sale, e come saranno cotti, cavinosi, e ponganosi in un vaso di terra o di legno, mettasi sopra una agliata fatta di noci teste, spigoli d'aglio, pepe e polpa di pane ammogliata nell'acqua calda, mescolasi ogni cosa insieme, e servanosi con pepe, e cannella sopra.
Per far potaggio di pesce e salmone
Pigliasi il pesce salmone, nettasi della pelle e tagliasi in bocconi, e pongasi in un vaso con cipolle soffritte, e prugne, oglio, vino bianco e un poco di aceto, acqua e mosto cotto, e sia la compositione tanta che il salmone sia coperto di tre dita, giungendovi pepe, cannella, garofani, noci moscate con zafferano, e facciasi finir di cuocere, e nell'ultimo prima che si voglia servire pongasi una mano di herbette battute. Servasi cosi caldo con la sua compositione sopra.
Per far pisto de polli cotto in pasticci
Piglisi il petto del pollo carnuto, non pastato, morto di quel giorno, allessasi con acqua, e un poco di sale, fin'a tanto che sia piu di mezzo cotto, pestinosi poi nel mortaro con mollica di pane sottestato over imbeverato nel brodo magro, quattro once di mandole, once tre di zuccaro. Pesta che sarà ogni cosa con brodo magro del detto pollo si stemprerà se sarà ben pisto, non occorrerà passarlo, ma solo giungerai un poco d'uva passa di Corinto, ed un poco di sugo di melangole, e ogni cosa si ponerà in una cassa di pasticcio, la quale sia un poco sodetta, di modo che possa tener la compositione, facciasi cuocere al forno con fuoco lento, over sotto il testo, senza esser coperto il pasticcio, percioche basta che habbia un poco di corpo. Servasi caldo perchè così vuol essere.
Per fare pasticcio di coscia di vitella mongana
Se la vitella sarà piccola, piglisi la coscia intera, ma sendo grossa, si puo compartire in piu pezzi, privisi di quella pellicina che ha in circa, e volendogli lasciare l'osso, sarà in arbitrio: facciasi stare in una composizione per tre hore, fatta di pepe, garofali, cannella , noci moscate, e sale, il simile i pilloti, con la quale a da essere impillottata, ma se prima si vorrà rifare sulla graticola, sarà in arbitrio, perche rifacendola il sugo resta in essa carne, e si sgonfia, e nel cuocere che si fa, non è cosi pericoloso il pasticcio di crepare, per tanto, stata che sarà in la composizione, ò rifatta, ò no, s'impillotti per il lungo di lardo, e habbiasi un sfoglio tondo fatto di farina grossa, e si ponga detta carne in detto sfoglio, con fette di lardo sotto e sopra, spolverizzate della medesima spetieria, e bagnasi il foglio con ove sbattute, ò con acqua : chiudasi e facciasi il suo oratello in circa, e il pecollo donde possa sfiatare, quando sarà il tempo: diesigli il colore con ova sbattute, ovvero con acqua tinta di zafferano, ò dopo che è cotto cosi caldo si puo hancora dare il colore con una cotica di lardo. Tal pasticcio vuole cuocersi adagio, e non vuole il fuoco troppo impresso, e essendo il pezzo di sei libre, non vuole manco di due hore e mezza ha cuocere: ma piu sendo la coscia intera, e per conservarlo che non pigli troppoo colore di sopra, se gli metta sopra soglie di carta straccia e cotto che sarà si potrà servire caldo, e conservare l'estate per quattro giorni, e l'invernata per otto, vero è che quando si vogliono conservare, se gli pone piu sale, e piu spetierie, e sopra tutto turare il buco di sopra, e ogni loco dove fusse crepato, perche quando l'aere penetra il pasticcio, in breve si muffisse, e putrefà e vuole essere conservato in luogo asciutto, non troppo humido, ne troppo caldo.
Per far torta reali di pignoli, e mandole, et altre materie
Mondasi una libra di amandole ambrosine, state in mollo nell'acqua fredda per otto hore, e monde che saranno si pestino nel mortaro, con altrettantti pignoli mondi, che siano stati in mollo in acqua fredda per sei hore, e pista che sarà ogni cosa con due libre di zuccaro fino, giungasi con essi otto capi di latte freschi, ovvero una libra e mezza di fiorita pecorina fresca, e non havendo nè l'uno nè l'altro, pigliasi mozzarelle fresche, ma meglio sarà sempre i capi di latte, giungasi con esse materie; sei rossi d'ova freschi sbattuti, e quattro oncie di mele appie ben piste nel mortaro e, e un grano di muschio, e mezza oncia di gengevero e un poco d'acua rosa e nò volendosi biancata luogo di gengevero pongansi garofali, cannella, noci moscate, e habbisi apparecchiata la tortiera, con un sfoglio di pasta reale sotto alquanto grossetto, e il suo tortiglione sfogliato incirca, fatto di fior di farina, zuccaro, butiro, acqua rosa, e sale a bastanza, e mettasi dentro la compositione, di modo che non sia nè troppo alta, nè troppo bassa, e facciasi cuocere nel forno, come i marzapani, facendoli la sua crostata di zuccaro, e acqua rosa, e si serve calda o fredda a beneplacito.
Per far minestra di sparagi salvatici et domestici
Piglisi la parte piu tenera, facciasi bollire nell'acqua calda fin'a tanto che divengano teneri, dapoi si facciano finire di cuocere in buon brodo di cappone, o di vitella, et con pochissimo brodo vogliono servirsi. Con li salvatici si puo cuocere dell'uva passa. Li domestici cotti che saranno nel brodo, et non disfatti si possono servire con sugo di melangole, zuccaro, et sale, et in giorno di magro, o di vigilta si terrà l'ordine de gli altri herbami.
Ma chi era veramente Bartolomeo Scappi, cavaliere del Giglio e Comes Palatinus Lateranensis al servizio di quattro papi? Lo spiega con precisione il volume “Il cuoco segreto dei papi” di June di Schino e Furio Luccichenti (Gangemi Editore, 224 pagine, 35 €) che ricostruisce, sulla base di un'ampia ricerca archivistica e di un pregevole corredo fotografico in alta definizione, la vita del celebre «chef» del '500, descrivendo il ruolo e le vicende della Confraternita dei Cuochi e Pasticceri a cui apparteneva. Il libro comprende un’antologia della monumentale "Opera" che Scappi scrisse al culmine della carriera (Venezia, 1570) e ventotto tavole, con cui l’autore corredò il testo per illustrare l'architettura delle cucine e gli "instromenti, ordigni e masserizie" necessari a esercitare l'arte del cuoco nella Roma rinascimentale. Il libro appena uscito ha subito vinto il prestigioso Premio Bancarella dell’Accademia Italiana della cucina: «Il volume - spiega l'autrice - è frutto di cinque anni di perseverante ricerca negli archivi vaticani. Cinque anni che mi hanno consentito di scoprire l'esatta data del primo testamento (1571) e della morte dello Scappi (13 aprile 1577) e il luogo in cui fu sepolto, la chiesa di San Vincenzo della Confraternita dei Cuochi e Pasticcieri a Roma. Morendo, Bartolomeo lascò dei soldi alla Confraternita che ebbe ancora lunga vita poichè l'ultimo presidente fu nientemeno che Giuseppe Garibaldi». L’ "Opera" di Scappi fu un libro assolutamente innovativo per la sua epoca. Conteneva più di mille ricette, ottenne il privilegio di stampa dell’Inquisizione e introdusse nuove conoscenze nella gastronomia rinascimentale. «Esso rivela che nel '500 a Venezia era in auge la moda delle colazioni a base di frutta e verdura candite – spiega la Di Schino - Le verdure erano allora considerate cibo plebeo ma il cuoco, che era di umili origini, le trasforma in cibo per i nobili inventando piatti raffinati come il brodo apostolorum con le erbe tritate». Per un altro grande gastronomo del passato, Bartolomeo Platina, mangiare pesce portava malattie, Scappi elenca invece ricette con ben 75 tipi di pesce (“nessuno lo cucina meglio dei pescatori di Chioggia”, precisa). «L'Opera non fu mai tradotta in alcuna lingua straniera – osserva ancora la Di Schino - ma fu copiata in tutte le lingue, dai Paesi Bassi alla Spagna, dove Diego Granado Maldonada utilizzò a proprio nome gran parte delle ricette di Scappi nel “Libro del Arte de cozina”, edito nel 1599».
Si può consultare l'Opera dello Scappi: qui.
R.P.

domenica 11 novembre 2012

San Martino.

Il mantello di S. Martino

Quando Martino era ancora un militare, ebbe la visione che divenne l'episodio più narrato della sua vita e quello più usato dall'iconografia e dalla aneddotica. Si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi, nell'Oratorio reale. I Franchi la portavano come stendardo in guerra, davanti alle truppe, fidando nella protezione del santo patrono.
Ora, in latino: mantello, di dice cappa; ed il "matello corto" o "mantellino": cappella.
Quest'ultimo termine venne esteso alle persone incaricate di conservare il residuo del mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all'Oratorio reale, che non era una chiesa, e che perciò fu chiamato cappella. Ecco perchè tutte le piccole chiese, oratori perchè destinate alla sola preghiera e non alla liturgia o altro, si chiamano: cappelle.
Ed i cori che si riunivano in oratori per studiare il canto specialmente quello liturgico, assunsero il nome che hanno tuttora, di "cappelle musicali" e poichè in questi oratori non v'erano strumenti per accompagnare il canto, ancora oggi per un coro "cantare a cappella", significa - appunto - cantare senza alcun accompagnamento strumentale.
Da Carlomagno la cappa di San Martino venne inviata all'oratorio palatino di Aquisgrana, che da allora si chiamerà, in francese Aix-la-chapelle; Aachen, in tedesco.
Dalla cappa di Martino prese nome, perfino, la dinastia reale francese dei "Capetingi" in quanto gli antichi re di Francia usavano rivestirsi, almeno nel giorno dell'incoronazione o nelle occasioni più solenni ed importanti, della "cappa" o "cappella" di S. Martino..

Nell'immagine l'episodio è raffigurato su un capitello del chiostro dell'Abbazia di St-Pierre-de Moissac in Francia. S. Martino è protettore di questa nazione e dell'Arma di Fanteria del nostro Esercito.
Per conoscere la storia dell'Abbazia e per conoscere come l'insipienza umana abbia quasi distrutto un'Abbazia del VII secolo (cioè quattrocento anni prima del Mille...!) costruita sulle fondamenta di una precedente del IV sec., si legga qui. Oggi il monumento è stato dichiarato "patrimonio mondiale dell'umanità" ed appartiene alle "Strade del Commino di Santiago di Compostela".

L'estate di San Martino

Nei primi giorni di novembre, San Martino è in viaggio per paesi molto freddi. Il Santo passa sul suo cavallo coperto dal suo mantello. Due poveri mendicanti, mal coperti nei loro poveri cenci estivi, domandano al forte e bel cavaliere la carità. Egli sen'altro si leva il mantello, lo taglia con la spada in due parti e ne porge una al mendicante più vicino. "E a me? - domanda l’altro mendicante -non date nulla signore?" Martino allora, con la spada, taglia la metà rimasta del mantello e porge al mendicante la quarta parte del mantello intero. Il primo mendicante ha metà del mantello, il Santo e l’altro mendicante un quarto del mantello ciascuno e così il sacrificio del Santo è inutile perchè, col freddo che fa, nessuno è ben riparto e tutti soffrono. Allora il buon Dio comanda a Novembre di rasserenare il cielo e di mitigare l’aria per tutta la durata del viaggio di Martino. E siccome Dio non ritira mai i suoi ordini, i primi giorni di novembre sono sempre rallegrati da un tepido sole. Noi chiamiamo quest’epoca l’ "estate di San Martino".

S. Martino e le oche.
In Italia, per tradizione, il giorno di San Martino si aprono le botti per il primo assaggio del vino novello, accompagnato dalle prime castagne. Un tempo però in questo stesso giorno aveva termine, in molte zone del nord, l’anno lavorativo dei contadini. Se il padrone non chiedeva loro di restare a lavorare per lui anche l’anno dopo, questi dovevano traslocare e andare a cercare un altro padrone e un altro alloggio. Pure in città divenne abituale, per chi aveva un alloggio in affitto, cambiare casa proprio a San Martino, perciò “fare San Martino” è diventato un modo per dire “cambio casa”.
Va ricordato anche che in passato il periodo di penitenza e digiuno che precede il Natale cominciava il 12 novembre e quindi, anche per questo motivo il giorno prima, per San Martino appunto, si faceva una grande mangiata d’oca o di tacchino; era una specie di capodanno contadino e l’oca era considerata il maiale dei poveri. In ogni modo la scelta del grasso volatile come cibo tipico della festa di San Martino non è casuale perché dietro la popolare usanza gastronomica si celano vestigia di antiche credenze religiose che deriverebbero dalle celebrazioni del Samuin celtico: l'oca di san Martino sarebbe dunque una discendente di quelle oche sacre ai Celti, simboli del Messaggero divino, che accompagnavano le anime dei defunti nell'aldilà.
Una curiosità: nella cucina tradizionale romana non vi sono ricette per cucinare l'oca, forse per ancestrale riconoscenza dei Romani verso questi volatili, simbolo di fedeltà e vigilanza. D'altronde le oche che sorvegliavano il tempio della dea Giunone al Campidoglio riuscirono a salvare il colle dall'invasione dei Galli nel 390 a.C. dando l'allarme con le loro strida!
Questa tradizione di cibarsi dell'oca nel giorno di S. Martino affonda le sue radici nei secoli più antichi . L'oca costituì assieme al maiale la riserva di grassi e proteine durante l'inverno del povero contadino che si cibava quasi sempre solo di cereali e di grandi polente. Dopo gli egiziani sentiamo parlare dell'oca da Omero che ci narra che i Greci tenevano l'oca come allegro compagno d'infanzia, come guardiano. Anche i romani tenevano in grande considerazione le oche che servivano da guardiani notturni del tempio della dea Giunone nel Campidoglio. Le oche venivano ingrassate con fichi secchi provenienti dalle regioni meridionali per rendere il fegato bello grasso. I romani chiamavano iecor il fegato e iecor ficatum quello grasso, da cui l'italiano "fegato".
L'oca fu sempre allevata anche nel periodo medioevale nei monasteri e nelle famiglie dei contadini, come ordinava Carlo Magno. A favorire la diffusione dell'oca furono attorno al 1400 alcune comunità ebraiche di rito aschenazita che si stabilirono, provenienti dall'Europa del nord, nelle regioni settentrionale della penisola e quindi anche nel Veneto . Per motivi religiosi non potevano consumare carne di maiale, così i loro macellai preparavano deliziosi salami e prosciuttini d'oca. L'oca era cibo prediletto dalle ricche famiglie ebree sul finire dell'ottocento. Risulta che fra i barbari che saccheggiarono Roma nel 390 a.C., sotto la guida di Brenno, il palmipede era pure "simbolo dell'aldilà" e guida dei pellegrini, ma anche della Grande Madre dell'Universo e dei viventi.
La zampa dell'oca veniva usata come "marchio" di riconoscimento dai maestri costruttori di cattedrali gotiche che si chiamavano Jars che in francese vuol dire oche.
San Martino

La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.
                                                                 
Giosuè Carducci

giovedì 8 novembre 2012

Albo d'Oro.

 
A conclusione di questa serie di posts di militaria, si informa che è intenzione della Società realizzare l' "Albo d'oro di San Giuliano Vecchio" cioè: raccogliere i nominativi e le relative memorie dei combattenti e dei caduti di tutte le guerre (a cominciare da quelle per l'Indipendenza fino all'ultima 1940-45).
Ed anche dei civili deportati, dei militari internati nei campi di concentramento e delle vittime civili della guerra 1940 - 45 nonchè dei perseguitati politici.
 
Tutti coloro che hanno notizie ed informazioni in proposito, sono invitati a comunicarli rivolgendosi al Presidente, Roberto Piccinini; o al Vicepresidente, Nuccio Piccinini; o al Segretario, Dino Ferretti;
o al Tesoriere, Marco Ferruccio.
Oppure:
* chiamando il numero: 3206044925 dal lunedì al venerdì: dalle ore 19 alle ore 21; la domenica:
   dalle ore 11 alle ore 12,30;
* scrivendo a: sms.sangiulianovecchio@gmail.com

martedì 6 novembre 2012

2° Rgt artiglieria da fortezza.-

Questo reparto non portò il nome della nostra Città, ma ne recava lo stemma sulle cartoline reggimentali.
 
 
 
 
 

domenica 4 novembre 2012

IV novembre.



 
 
Questa mattina una delegazione della Società composta dal Presidente, Roberto Piccinini; dal Vicepresidente Nuccio Piccinini; dal Segretario, Dino Ferretti, e dal Socio Rino Piccinini (nipote di Piccinini Angelo caduto della Grande guerra)  ha deposto una corona di alloro alle lapidi che, sulla facciata delle Scuole, ricordano i Caduti della 1^ guerra mondiale e di tutte le guerre.
Sono intervenuti il Presidente del Consiglio comunale di Alessandria, Enrico Mazzoni (nostro Socio) ed il Vicecomandante della Stazione dei Carabinieri, m.llo m. Marco Paolo Castioni.
 
 
 
Grazie a Sara Piccinini per le fotografie.


domenica 28 ottobre 2012

Zucconi.

Tra qualche giorno, il 31 ottobre alla vigilia del giorno dei Santi, qualcuno (sempre troppi, aggiungiamo) festeggerà la "zucca vuota", o meglio: ci sarà la festa delle zucche vuote.
Non per niente in italiano "zuccone" ha un significato ben preciso (qui), certamente - a dir poco - disdicevole.
Cosa pensiamo di Halloween nel Bel Paese?
La pensiamo esattamente come il prof. Cacciari che sul Corriere della Sera del 31 ottobre di quattro anni fa' si espresse in questi termini.
 
«Festeggiare Halloween a Venezia? Non se ne parla proprio. Roba da Disneyland. O da Peschiera del Garda, lì dove c’è Gardaland. Noi abbiamo il Carnevale più bello, intelligente ed elegante del mondo. Perché mai dovremmo concedere spazio a qualcosa che non c’entra niente, dico niente, con le tradizioni italiane?». 
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Perché no a Halloween, professor Cacciari?
«Semplicemente perché non possiede alcun collegamento con la cultura italiana, con le vere feste delle nostre radici. Certo, mi sembra che la potenza mediatica americana riesca a imporre benissimo nel resto del mondo anche un appuntamento come Halloween. Viene da dire: è la globalizzazione, amico mio. Ma noi possiamo ribattere: l’Italia è la patria di una meravigliosa tradizione come il Carnevale. Venezia dal ’400 vanta il più straordinario appuntamento carnevalesco dell’intera Europa, imitato con fatica in tutto il mondo. E quindi possiamo permetterci il lusso di dire no a Halloween, nella nostra città non si festeggia, grazie mille...».
Il filosofo sindaco di Venezia se la prende anche con altre festività da calendario: «Halloween alla fine è una delle tante feste finte, fintissime, inventate a puri scopi commerciali. Basta guardare le vetrine piene di oggetti tutti uguali per Halloween. Mi viene in mente la festa della mamma, del papà, dei nonni, e chi più ne ha più ne metta. Roba che fino a qualche decennio fa non esisteva ed è stata imposta artificialmente solo per far soldi.
Cosa non le piace, a parte l’aspetto commerciale, della festa delle Streghe?
«L’aspetto tenebroso, demoniaco, mortuario, quasi di decomposizione... Qui c’è il teschio, non il puer aeternus, allegro e sorridente, che è il simbolo del Carnevale». Cacciari ammette che se comincia a parlare di Carnevale non la smette più: «La festa affonda le sue radici addirittura in un’era pre-romana. Il suo significato è legato al cambio dell’anno, alla tras-gressione nel senso più puro del termine, cioè del procedere verso il nuovo.... Lì è tutta la sua bellezza.».

Ed allora perchè non riscoprire le nostre tradizioni, ciò che abbiamo visto fare dai nostri vecchi: valori, gesti, ricette, consuetudini, etc.
Ci impegnamo già fin d'ora a farlo per l'anno prossimo.
Non dimentichiamo che una comunità che crede di poter fare a meno delle proprie tradizioni è uguale ad un essere umano che pretende di vivere senza la memoria.
E comunque poichè anche in noi è ben attivo il mitico "puer aeternus" evocato dal prof. Cacciari, ecco un simpatico fumetto in difesa della zucca...non della cosiddetta festa, neh!