Molte volte nei
discorsi con gli amici ricordiamo il Natale delle nostra infanzia. Questo che
racconto era il mio Natale "di allora"...con qualche commento aggiunto.
Era difficile che la notte di Natale non ci fosse la neve.
Ho sempre vissuto questo “magico” momento nella campagna della “terra mandrogna” per eccellenza, la piana alessandrina d’Oltrebormida: la mia Fraschetta. Tra la nebbia.
Terra rossa di gelsi e gaggìe, di fossi con le rive piene di erbe che si allungavano fino a toccare l’acqua gelata.
Da bambino, la mia cattolicissima maestra (la Gulminetti) ci insegnava i canti che ancora ricordo. Ci invitava a raccogliere il muschio per ornare il presepio.
Povero e indimenticabile presepio! Con le statuine di gesso, semplici e ingenue com’era la religiosità di quel mondo contadino che era rimasto indenne da quella rancorosa e devastante propaganda degli anni successivi che, forse, ha il gelo dei nostri campi a Natale, ma non ne ha la pacificante e feconda poesia.
La “Signora Maestra”, al pomeriggio, ci accompagnava alla Novena.
Le strade erano di ghiaia; le avrebbero asfaltate poi (non tutte) negli anni ’60/’70.
Arrivavamo alla chiesa che era già buio. I libretti erano un po’ consunti (c’era il segno di mani antiche sull’angolo “in basso” della pagina dispari) ma quelle “parolone”: “Præparatio ad Nativitatem Domini nostri Jesu Christi - Novendiales preces ante Solemmnitatem” di cui non conoscevamo la traduzione, erano per noi l’inizio delle Feste, l’introduzione necessaria alla nascita del Signore, ed in qualche modo il legame ad un ben definito ciclo temporale che ricominciava.
Per la verità il primo assaggio delle Feste incipienti era il giorno di S. Lucia, quando di ritorno da Alessandria ci portavano il lacabòn, quel dolce alessandrino fatto di miele, zucchero e bianco d’uovo. Una chicca!
Al termine della celebrazione, le donne, le ragazze grandi, pochi uomini e noi bambini cantavamo: “Venite o Buon Gesù, a nascer nel mio cuore. Venite, Venite! E non tardate più ! E nel venire che fate? Tutto in me rinnovate a ciò che possa anch’io amarvi, o Gesù mio.”.
Il dare del “voi” a Gesù Bambino non ci toglieva né la fiducia affettuosa né la dolcezza dell'attesa.
Era il tratto naturale di un mondo ormai completamente scomparso, che si intonava con la semplicità dell'anima e con gli abiti scabri di quegli uomini e di quelle donne use a parlar poco ed a lavorare molto.
E le parole “tutto in me rinnovate” trovavano anche una loro - come dire - materiale consistenza nella consuetudine per le ragazze di iniziare al principio della Novena la confezione di un capo di abbigliamento (normalmente, una camicetta) da arnuà (rinnovare, appunto) il giorno di Natale. Valeva per tutti. Ognuno doveva avere il giorno di Natale qualcosa di nuovo. Era un modo - magari, inconsapevole - per esprimere una fede non solo in “spirito” ma anche in “verità”.
La maestra ci faceva poi comporre una letterina, chiamata per generazioni la “letterina di Natale o a Gesù Bambino”.
Dovevamo nasconderla sotto il piatto di papà nel pranzo di Natale, quando la famiglia, anche la più riottosa e divisa, si riuniva intera e pacifica a mangiare il risotto o la pasta in brodo di cappone o di carne (gli agnolotti, a S. Stefano), la mostarda ed il torrone, con le sue belle lettere stampigliate in oro ed i colori che sembravano smalti.
Essi - e quello stare insieme così raro, quel pranzo così fisso nella sua sacralità - creavano un clima di festa pacifica, intima e dolcissima.
Il giorno di Natale nessuno poteva lavorare: nemanco il tavolo del pranzo veniva spreparato e le stoviglie non erano lavate, nelle stalle gli animali non erano governati.
La sera della Vigilia nessuno usciva di casa, se non per la Messa di mezzanotte.
Tutto doveva essere fermo in quel momento che ha diviso il tempo in un "prima" ed un "dopo".
Anche i bar e le osterie, temuti da tante mogli-contadine come luogo di perdizione dei mariti, restavano chiusi.
Sarebbe stato sfacciato vedere in quella notte il banco della mescita con il fumo e le grida.
Non c’era bisogno che alcuno lo raccomandasse.
La gente aveva ancora valori condivisi.
Solo che, davanti al gregge, cominciavano ad apparire i lupi: l’indifferenza se non l’odio per tali valori, le mode alienanti, spietate e ossessive del consumismo più devastante.
Ma quell'angolo di campagna con i suoi orizzonti invernali vasti, con la solitudine spoglia dei campi e degli orti, appariva riservato, ancora protetto, come un'oasi. Per fortuna la Maestra raccoglieva noi bambini con autorevolezza affettuosa e incontestata.
C'erano Natali con molta neve, e la gente andava in chiesa a piedi.
Io mi ritenevo molto fortunato perché abitavo a non più di sei o sette metri dalla chiesa.
Lì ci aspettava l'incanto dell’esposizione solenne del “Bambino”. Sì, perché il presepio non c’era in chiesa: le stauette dei pastori, degli artigiani e degli animali potevano distrarre l’attenzione da quella più piccola di tutte: Gesù “infante”. Il presepio si faceva a casa e nelle chiese francescane perché proprio il Serafico Patriarca Francesco lo “inventò” (si diceva) a Greppio.
Il Parroco, don
Pèder Ferraris - Cappellano pluridecorato della guerra del ‘15, amatissimo e valente “musicante”, come amava dire di sé - con fermezza, intonava e dirigeva (mentre suonava l'
harmonium) quel canto dolcissimo in cui, una volta tanto, si impegnavano anche gli uomini:
Regem venturum Dominum, venite adoremus (in realtà era il canto delle profezie
more responsoriali, cioè intercalato dall'antifona, appunto,
Regem... che si può sentire cliccando
qui.
Il giorno di Natale ed in quello dell’Epifania al termine delle Messe, si andava a “baciare il Bambino”.
Non era casuale: perché si trattava dei giorni in cui Cristo si è manifestato alle genti: prima ai poveri, cioè ai pastori; poi, ai potenti cioè ai Re Magi. Mi colpiva vedere il Parroco che era "grande e grosso", porgere ai fedeli quel Gesù Bambino di ceramica così delicato ed indifeso da sembrare leggero e soffice.
E, in fila, mentre si aspettava, non si cantava "Tu scendi dalle stelle" che (ancorchè composto da un Santo, Alfonso Maria de' Liguori) allora era considerato un canto tipicamente napoletano, ma si cantava una dolce e serena ninna-nanna: Dormi, dormi bel bambin... che al termine della terza strofa ci faceva cantare:...Redentor, Ti bacio il viso.
Il canto che rappresentava i "pensieri" della Madonna mentre guarda il suo Bimbo appena nato, interpretava l’atto che veniva compiuto, realizzando una sorta di mimesi liturgica.
Al termine ne troverete una magnifica versione interpretata da un coro...della Repubblica Ceca.
Pensiamoci bene: un canto della tradizione popolare delle nostre campagne cantato in un Paese, un tempo d'oltre-cortina...
La fede unita alla musica compie cose, a dir poco, incredibili.
Era una delle poche volte in cui quegli omòni, rudi e ruvidi contadini, sapevano mettere da parte il rispetto umano e cantavano a voce piena (il Magnificat a squarciagola diventava un vero grido di esultanza!), con sentimento, quello stesso che avevano imparato dalle loro mamme e dalle loro maestre.
Perché - almeno da noi - le maestre insegnavano a leggere, a scrivere ed a far di conto, ma insegnavano anche l'educazione, il rispetto e la fede.
Oggi che molte di loro si sono “emancipate”, invece di continuare quella preziosa missione, ai bambini insegnano halloween, babbo natale, gli elfi e le renne alate: cose sciocche, senza spessore umano, inconsistenti come la cultura che le esprime.
Era davvero indimenticabile quel Magnificat.
La definizione di quel modo di cantarlo l’ho trovata anni dopo leggendo il commento al Salmo 32 di S. Agostino, là dove - trattando del jubilus - il S. Vescovo di Ippona afferma: “il giubilo è quella melodia con la quale il cuore effonde quanto non gli riesce a parole”.
Questo conoscevano i nostri vecchi quando cantavano e pregavano in latino. Senza conoscerne la traduzione, ne sperimentavano l’anima, il senso intimo.
I giorni seguenti il Natale c’era poi un gran da fare innanzitutto per le Quarantore.
Gli ultimi tre giorni dell’anno erano dedicati a questo pio esercizio.
La chiesa già solenne di per sé per il Natale, lo diveniva ancora di più per l’Esposizione eucaristica.
Il grande ostensorio dono ottocentesco della famiglia Rossi (utilizzato solo in questa occasione ed alla processione del Corpus Domini) splendeva e sembrava trasfigurarsi in mezzo ai lumi ed all’incenso.
Ogni sera, dopo il discorso del sacerdote predicatore (negli anni ’30 venne anche don Orione di cui don Pietro era amico, a svolgere questo ufficio) la benedizione con il Tantum ergo, cantato - solo in questa occasione - con un tono solenne anche in questo caso dagli uomini con il cosiddetto "controcanto".
L’altro impegno che avevamo nei giorni dopo Natale era quello di raccogliere i risparmi dell'anno, perché ci attendeva l’Epifania.
In essa si celebra la manifestazione del Signore a tutte le genti.
Sapevamo, guardando il presepio in casa, che con l'Epifania il Signore, attraverso i suoi angeli, cioè i suoi inviati, non chiama soltanto i pastori, la lavandaia, la pollivendola, il calzolaio... chiama i Re, i sapienti, chiama uomini di tutte le razze e di tutti i continenti. Uno dei Re Magi, infatti, è nero.
All'Epifania (nella campagna della mia infanzia mai ho sentito parlare di befane!), dunque, si raccoglievano i risparmi. Essi ci erano costati la privazione (ricordate: i “fioretti”? Molto educativi ! Ci insegnavano fin da piccoli la rinuncia e i sacrifici inevitabili nella vita) di una mela, di una liquirizia, di un pezzo di quella cioccolata bianca e nera o con le nocciole tritate che si tagliava a fette....consegnavamo tutto alla Maestra e al Parroco che poi spedivano i nostri soldi ai missionari.
L’Epifania non evocava streghe o cretinerie consimili. Era invece la “Giornata della Santa Infanzia”, perché ognuno di noi “adottava” un fratellino nero o giallo o rosso, il quale al battesimo avrebbe ricevuto il nostro nome.
La maestra ogni anno chiamava un missionario a parlarci della vita delle Missioni d'Africa. Ricordo emozioni inconfondibili nel sentir parlare con tanto amore di quei paesi lontani, di una natura così diversa dalla nostra, di climi e animali...ma soprattutto il Padre che ci parlava dei bambini che avevano bisogno di cibo, di vestiti, di scuole ed ospedali, oltre che della nostra fede.
Oggi cosa c’è nelle festività.
Guardatevi intorno: non c’è nemmeno più la caricatura del Natale.
Come è possibile sottrarre ai nostri bambini questi incanti e queste ricchezze ! ?
Come è possibile dar loro idiozie fatte di babbi natale e di elfi ? !
Com’è possibile riempirli di befane e di streghe ? !
Guardateli, i nostri bambini; non meritano adulti insipienti come noi…
- Dormi, dormi bel Bambin,
- Re divin,
- Dormi, dormi, o fantolin,
- Fà la nanna, o caro Figlio
- Re del ciel,
- Tanto bel
- Grazioso giglio.
- Chiudi i lumi, o mio tesor,
- Dolce amor,
- Di quest’alma, altro Signor,
- Fà la nanna, o Regio infante
- Sopra il fien,
- Caro ben,
- Celeste amante.
- Perchè piangi o Bambinel,
- Forse il gel
- Ti dà noia, o l’asinel ?
- Fà la nanna, o Paradiso
- Del mio cor,
- Redentor,
- Ti bacio il viso.
Il testo (completo è ben più lungo: è composto da diciassette strofe) è tratto da "
Lira Sacra"
di Fabiani edito in Corsica a Bastìa nel 1879, con centotredici
canti. Succesivamente fu pubblicato nel 1915, ma solo con ottanta
canti, dalla
Ed. Tipografia dell'Immacolata; Levanto (SP).
Nella foto: gelsi con la neve.
(1): da “Bello dentro, fuori meno” di C. Caputo.