martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale!

 

Un mondo di auguri a tutti,
con un canto della tradizione interpretato da un Grande!


lunedì 24 dicembre 2012

Raccontino di Natale.


Molte volte nei discorsi con gli amici ricordiamo il Natale delle nostra infanzia. Questo che racconto era il mio Natale "di allora"...con qualche commento aggiunto.
rp

Era difficile che la notte di Natale non ci fosse la neve.
Ho sempre vissuto questo “magico” momento nella campagna della “terra mandrogna” per eccellenza, la piana alessandrina d’Oltrebormida: la mia Fraschetta. Tra la nebbia.
Terra rossa di gelsi e gaggìe, di fossi con le rive piene di erbe che si allungavano fino a toccare l’acqua gelata.
Da bambino, la mia cattolicissima maestra (la Gulminetti) ci insegnava i canti che ancora ricordo. Ci invitava a raccogliere il muschio per ornare il presepio. Povero e indimenticabile presepio! Con le statuine di gesso, semplici e ingenue com’era la religiosità di quel mondo contadino che era rimasto indenne da quella rancorosa e devastante propaganda degli anni successivi che, forse, ha il gelo dei nostri campi a Natale, ma non ne ha la pacificante e feconda poesia.
La “Signora Maestra”, al pomeriggio, ci accompagnava alla Novena. Le strade erano di ghiaia; le avrebbero asfaltate poi (non tutte) negli anni ’60/’70. Arrivavamo alla chiesa che era già buio. I libretti erano un po’ consunti (c’era il segno di mani antiche sull’angolo “in basso” della pagina dispari) ma quelle “parolone”: “Præparatio ad Nativitatem Domini nostri Jesu Christi - Novendiales preces ante Solemmnitatem di cui non conoscevamo la traduzione, erano per noi l’inizio delle Feste, l’introduzione necessaria alla nascita del Signore, ed in qualche modo il legame ad un ben definito ciclo temporale che ricominciava.
Per la verità il primo assaggio delle Feste incipienti era il giorno di S. Lucia, quando di ritorno da Alessandria ci portavano il lacabòn, quel dolce alessandrino fatto di miele, zucchero e bianco d’uovo. Una chicca!
Al termine della celebrazione, le donne, le ragazze grandi, pochi uomini e noi bambini cantavamo: “Venite o Buon Gesù, a nascer nel mio cuore. Venite, Venite! E non tardate più ! E nel venire che fate? Tutto in me rinnovate a ciò che possa anch’io amarvi, o Gesù mio.”.
Il dare del “voi” a Gesù Bambino non ci toglieva né la fiducia affettuosa né la dolcezza dell'attesa. Era il tratto naturale di un mondo ormai completamente scomparso, che si intonava con la semplicità dell'anima e con gli abiti scabri di quegli uomini e di quelle donne use a parlar poco ed a lavorare molto. E le parole “tutto in me rinnovate” trovavano anche una loro - come dire - materiale consistenza nella consuetudine per le ragazze di iniziare al principio della Novena la confezione di un capo di abbigliamento (normalmente, una camicetta) da arnuà (rinnovare, appunto) il giorno di Natale. Valeva per tutti. Ognuno doveva avere il giorno di Natale qualcosa di nuovo. Era un modo - magari, inconsapevole - per esprimere una fede non solo in “spirito” ma anche in “verità”.
La maestra ci faceva poi comporre una letterina, chiamata per generazioni la “letterina di Natale o a Gesù Bambino”. Dovevamo nasconderla sotto il piatto di papà nel pranzo di Natale, quando la famiglia, anche la più riottosa e divisa, si riuniva intera e pacifica a mangiare il risotto o la pasta in brodo di cappone o di carne (gli agnolotti, a S. Stefano), la mostarda ed il torrone, con le sue belle lettere stampigliate in oro ed i colori che sembravano smalti.
Essi - e quello stare insieme così raro, quel pranzo così fisso nella sua sacralità - creavano un clima di festa pacifica, intima e dolcissima. Il giorno di Natale nessuno poteva lavorare: nemanco il tavolo del pranzo veniva spreparato e le stoviglie non erano lavate, nelle stalle gli animali non erano governati.
La sera della Vigilia nessuno usciva di casa, se non per la Messa di mezzanotte.
Tutto doveva essere fermo in quel momento che ha diviso il tempo in un "prima" ed un "dopo".
Anche i bar e le osterie, temuti da tante mogli-contadine come luogo di perdizione dei mariti, restavano chiusi. Sarebbe stato sfacciato vedere in quella notte il banco della mescita con il fumo e le grida. Non c’era bisogno che alcuno lo raccomandasse. La gente aveva ancora valori condivisi.
Solo che, davanti al gregge, cominciavano ad apparire i lupi: l’indifferenza se non l’odio per tali valori, le mode alienanti, spietate e ossessive del consumismo più devastante.
Ma quell'angolo di campagna con i suoi orizzonti invernali vasti, con la solitudine spoglia dei campi e degli orti, appariva riservato, ancora protetto, come un'oasi. Per fortuna la Maestra raccoglieva noi bambini con autorevolezza affettuosa e incontestata.
 C'erano Natali con molta neve, e la gente andava in chiesa a piedi. Io mi ritenevo molto fortunato perché abitavo a non più di sei o sette metri dalla chiesa. Lì ci aspettava l'incanto dell’esposizione solenne del “Bambino”. Sì, perché il presepio non c’era in chiesa: le stauette dei pastori, degli artigiani e degli animali potevano distrarre l’attenzione da quella più piccola di tutte: Gesù “infante”. Il presepio si faceva a casa e nelle chiese francescane perché proprio il Serafico Patriarca Francesco lo “inventò” (si diceva) a Greppio.
Il Parroco, don Pèder Ferraris - Cappellano pluridecorato della guerra del ‘15, amatissimo e valente “musicante”, come amava dire di sé - con fermezza, intonava e dirigeva (mentre suonava l'harmonium) quel canto dolcissimo in cui, una volta tanto, si impegnavano anche gli uomini: Regem venturum Dominum, venite adoremus (in realtà era il canto delle profezie more responsoriali, cioè intercalato dall'antifona, appunto, Regem... che si può sentire cliccando qui.
Il giorno di Natale ed in quello dell’Epifania al termine delle Messe, si andava a “baciare il Bambino”.
Non era casuale: perché si trattava dei giorni in cui Cristo si è manifestato alle genti: prima ai poveri, cioè ai pastori; poi, ai potenti cioè ai Re Magi. Mi colpiva vedere il Parroco che era "grande e grosso", porgere ai fedeli quel Gesù Bambino di ceramica così delicato ed indifeso da sembrare leggero e soffice.
E, in fila, mentre si aspettava, non si cantava "Tu scendi dalle stelle" che (ancorchè composto da un Santo, Alfonso Maria de' Liguori) allora era considerato un canto tipicamente napoletano, ma si cantava una dolce e serena ninna-nanna: Dormi, dormi bel bambin... che al termine della terza strofa ci faceva cantare:...Redentor, Ti bacio il viso.
Il canto che rappresentava i "pensieri" della Madonna mentre guarda il suo Bimbo appena nato,  interpretava l’atto che veniva compiuto, realizzando una sorta di mimesi liturgica.
Al termine ne troverete una magnifica versione interpretata da un coro...della Repubblica Ceca.
Pensiamoci bene: un canto della tradizione popolare delle nostre campagne cantato in un Paese, un tempo d'oltre-cortina...
La fede unita alla musica compie cose, a dir poco, incredibili.
 Era una delle poche volte in cui quegli omòni, rudi e ruvidi contadini, sapevano mettere da parte il rispetto umano e cantavano a voce piena (il Magnificat a squarciagola diventava un vero grido di esultanza!), con sentimento, quello stesso che avevano imparato dalle loro mamme e dalle loro maestre.
Perché - almeno da noi - le maestre insegnavano a leggere, a scrivere ed a far di conto, ma insegnavano anche l'educazione, il rispetto e la fede. Oggi che molte di loro si sono “emancipate”, invece di continuare quella preziosa missione, ai bambini insegnano halloween, babbo natale, gli elfi e le renne alate: cose sciocche, senza spessore umano, inconsistenti come la cultura che le esprime.
Era davvero indimenticabile quel Magnificat.
La definizione di quel modo di cantarlo l’ho trovata anni dopo leggendo il commento al Salmo 32 di S. Agostino, là dove - trattando del  jubilus - il S. Vescovo di Ippona afferma: “il giubilo è quella melodia con la quale il cuore effonde quanto non gli riesce a parole”.
Questo conoscevano i nostri vecchi quando cantavano e pregavano in latino. Senza conoscerne la traduzione, ne sperimentavano l’anima, il senso intimo.
I giorni seguenti il Natale c’era poi un gran da fare innanzitutto per le Quarantore. Gli ultimi tre giorni dell’anno erano dedicati a questo pio esercizio.
La chiesa già solenne di per sé per il Natale, lo diveniva ancora di più per l’Esposizione eucaristica.
Il grande ostensorio dono ottocentesco della famiglia Rossi (utilizzato solo in questa occasione ed alla processione del Corpus Domini) splendeva e sembrava trasfigurarsi in mezzo ai lumi ed all’incenso. Ogni sera, dopo il discorso del sacerdote predicatore (negli anni ’30 venne anche don Orione di cui don Pietro era amico, a svolgere questo ufficio) la benedizione con il Tantum ergo, cantato - solo in questa occasione - con un tono solenne anche in questo caso dagli uomini con il cosiddetto "controcanto".
L’altro impegno che avevamo nei giorni dopo Natale era quello di raccogliere i risparmi dell'anno, perché ci attendeva l’Epifania. In essa si celebra la manifestazione del Signore a tutte le genti. Sapevamo, guardando il presepio in casa, che con l'Epifania il Signore, attraverso i suoi angeli, cioè i suoi inviati, non chiama soltanto i pastori, la lavandaia, la pollivendola, il calzolaio... chiama i Re, i sapienti, chiama uomini di tutte le razze e di tutti i continenti. Uno dei Re Magi, infatti, è nero.
All'Epifania (nella campagna della mia infanzia mai ho sentito parlare di befane!), dunque, si raccoglievano i risparmi. Essi ci erano costati la privazione (ricordate: i “fioretti”? Molto educativi ! Ci insegnavano fin da piccoli la rinuncia e i sacrifici inevitabili nella vita) di una mela, di una liquirizia, di un pezzo di quella cioccolata bianca e nera o con le nocciole tritate che si tagliava a fette....consegnavamo tutto alla Maestra e al Parroco che poi spedivano i nostri soldi ai missionari. L’Epifania non evocava streghe o cretinerie consimili. Era invece la “Giornata della Santa Infanzia”, perché ognuno di noi “adottava” un fratellino nero o giallo o rosso, il quale al battesimo avrebbe ricevuto il nostro nome. La maestra ogni anno chiamava un missionario a parlarci della vita delle Missioni d'Africa. Ricordo emozioni inconfondibili nel sentir parlare con tanto amore di quei paesi lontani, di una natura così diversa dalla nostra, di climi e animali...ma soprattutto il Padre che ci parlava dei bambini che avevano bisogno di cibo, di vestiti, di scuole ed ospedali, oltre che della nostra fede.
Oggi cosa c’è nelle festività.
Guardatevi intorno: non c’è nemmeno più la caricatura del Natale.
Come è possibile sottrarre ai nostri bambini questi incanti e queste ricchezze ! ?
Come è possibile dar loro idiozie fatte di babbi natale e di elfi ? ! 
Com’è possibile riempirli di befane e di streghe ? !
Guardateli, i nostri bambini; non meritano adulti insipienti come noi…

Dormi, dormi bel Bambin,
Re divin,
Dormi, dormi, o fantolin,
Fà la nanna, o caro Figlio
Re del ciel,
Tanto bel
Grazioso giglio.
Chiudi i lumi, o mio tesor,
Dolce amor,
Di quest’alma, altro Signor,
Fà la nanna, o Regio infante
Sopra il fien,
Caro ben,
Celeste amante.
Perchè piangi o Bambinel,
Forse il gel
Ti dà noia, o l’asinel ?
Fà la nanna, o Paradiso
Del mio cor,
Redentor,
Ti bacio il viso.


Il testo (completo è ben più lungo: è composto da diciassette strofe) è tratto da "Lira Sacra" di Fabiani edito in Corsica a Bastìa nel 1879, con centotredici canti. Succesivamente fu pubblicato nel 1915, ma solo con ottanta canti,  dalla Ed. Tipografia dell'Immacolata; Levanto (SP).

Nella foto: gelsi con la neve.
(1): da “Bello dentro, fuori meno” di C. Caputo.

lunedì 17 dicembre 2012

Paperoni d'Italia.

(AGI) - Roma, 13 dic. - Le famiglie italiane sono sempre più povere ma soprattutto crescono le diseguaglianze: solo al 10% va il 45,9% della ricchezza complessiva. Sono i dati che emergono dal Supplemento al Bollettino statistico della Banca d'Italia. Alla fine del 2010 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 9,4% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9% della ricchezza complessiva. "La distribuzione della ricchezza, si legge nell'analisi, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; all'opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata". Il numero di famiglie con una ricchezza netta negativa, alla fine del 2010 pari al 2,8%, risulta invece in lieve ma graduale crescita dal 2000 in poi. Secondo le stime disponibili comunque, segnala la Banca d'Italia, nel confronto internazionale l'Italia registra un livello di disuguaglianza della ricchezza netta tra le famiglie piuttosto contenuto, anche rispetto ai soli paesi più sviluppati. La crisi inoltre continua a erodere la ricchezza netta delle famiglie italiane che nel 2011 ha subito un calo dello 0,7% a prezzi correnti e del 3,4% in termini reali. Nel dettaglio, alla fine dell'anno scorso il dato aggregato era pari a circa 8.619 miliardi di euro, corrispondenti a poco piu' di 140 mila euro pro capite e 350 mila euro in media per famiglia, tornando più o meno sui livelli di fine anni Novanta. Dal 2007, quando la ricchezza raggiunse il suo valore massimo in termini reali, la riduzione è pari al 5,8%. E, secondo stime preliminari, un'ulteriore diminuzione dello 0,5% in termini nominali si è avuta nel primo semestre di quest'anno. Nel corso del 2011, l'aumento delle attività reali (1,3%) è stato più che compensato da una diminuzione delle attività finanziarie (3,4%) e da un aumento delle passività (2,1%). In particolare, alla fine dello scorso anno, le attività reali rappresentavano il 62,8% del totale delle attività e le attività finanziarie il 37,2%. Le passività finanziarie, pari a 900 miliardi di euro, erano il 9,5% delle attività complessive. Nel confronto internazionale, sottolinea Bankitalia, le famiglie italiane mostrano un'elevata ricchezza netta, pari, nel 2010, a 8 volte il reddito disponibile, contro l'8,2 del Regno Unito, l'8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone, il 5,5 del Canada e il 5,3 degli Stati Uniti. Esse risultano inoltre relativamente poco indebitate, con un ammontare dei debiti pari al 71% del reddito disponibile (in Francia e in Germania è di circa il 100%, negli Stati Uniti e in Giappone è del 125%, nel Canada del 150% e nel Regno Unito del 165%). Tra la fine del 2010 e la fine del 2011 la ricchezza pro capite è diminuita dell'1% a prezzi correnti e del 3,7% a prezzi costanti. Sempre a prezzi costanti, la ricchezza netta pro capite nel 2011 è comparabile con i livelli che si registravano nella prima metà del decennio scorso. La ricchezza media per famiglia ha presentato una dinamica meno favorevole, essendo diminuita nel corso del 2011 dell'1,6% a prezzi correnti e del 4,3% a prezzi costanti. Il livello di ricchezza per famiglia del 2011 a prezzi costanti è simile a quello della fine degli anni novanta. Deve essere tuttavia tenuto presente che fra il 1995 e il 2011 il numero di famiglie italiane è cresciuto di quasi 5 milioni di unità, soprattutto a causa della riduzione della dimensione media delle famiglie, passata da 2,9 a 2,5 individui. Secondo il Codacons questi dati sono "sconcertanti". Per l'associazione di consumatori "i maggiori sacrifici necessari per risanare i conti pubblici andrebbero chiesti a chi se li può permettere e non certo a quelle famiglie povere che detengono appena il 9,4% della ricchezza totale. Obiettivo non certo perseguibile se ci si ostina ad aumentare una tassa proporzionale e non progressiva come l'Iva". Il dato, aggiunge il Codacons, "diventa poi sconvolgente se si abbina a quello secondo il quale dal 2010 al 2011 la ricchezza delle famiglie e' calata del 3,4% ed il 2,8% è totalmente in rosso". Per questo il Codacons chiede al Governo di "introdurre un contributo straordinario di solidarietà per questo 10% di famiglie italiane ricche e propone di introdurre, una tantum, un'aliquota marginale Irpef superiore al 43% per chi, ad esempio, dichiara piu' di 90.000 euro. Un gettito aggiuntivo da destinare integralmente ad aiutare chi è in difficolta'". (AGI) .

venerdì 14 dicembre 2012

Trata bürata....


Oggi nevica e, si sa, il mantello avvolgente della neve ci rimanda a "quando eravamo bambini". Forse più che di un mantello si tratta di una vera e propria "placenta virtuale" nella quale rientriamo. La neve rimanda ad aspetti piacevoli e fiabeschi: il candore, lo splendore ed il paesaggio immacolato, i fiocchi che danzano e riempiono l’aria, la sofficità del manto che suggerisce protezione e silenzio, e questo rimanda a purezza, ingenuità, romanticismo, aspetti infantili, ricordi ed  ancora…..sentimenti di amore e di amicizia, virtù e qualità del cuore, generosità e misticismo. Mah...
Ed i ricordi vanno alle filastrocche, non tanto quelle scolastiche ma quelle dialettali che sentivanno dire dai vecchi.
Eccone una famosissima delle nostre parti dell'Oltrebormida.
E' nelle tre versioni in uso da noi, con la relativa traduzione:


Trata bürata
e cóuua di’ na gata,
gata näira fa candäira,
pän e päss fa tüdäsch,
fa tüdäsch e tüdeschen,
tròta, tròta buraten!
 

Trata burata
La coda di una gatta
Gatta nera fa candela,
pane e pesce fa tedesco,
fa tedesco e tedeschino,
trotta trotta burattino.

Oppure:

Trata tratóra
pulenta e bergunsóla,
pulenta e marleucc,
i són cuntent teucc.


Trata tratora
polenta e gorgonzola
polenta e merluzzo
sono contenti tutti.


Oppure, nell'area di Cascinagrossa-Litta Parodi:

Trata tratóra,
e mata ch’ e va a scóra,
e va a scóra al Bosch,
porta a cà na rama d’bosch,
o na rama d’sanguinen,
da bat el cü al pupunen.


Trata trafora,
La bambina che va a scuola,
va a scuola a Bosco,
porta a casa un ramo d’albero
o un rametto di sanguinello
da picchiare il sedere al bambinello.


P.S.: il testo è stato fornito, a suo tempo, da Luciano Fenile. Grazie!
Chi vuole saperne di più sulle filastrocche dal punto di vista linguistico ed antropologico, legga: qui.
E' davvero, davvero interessante.

mercoledì 12 dicembre 2012

La filosofia del...pernacchio.

Dobbiamo dire la verità: raramente abbiamo trovato un pezzo come questo tratto da "Ragusanews". Per scrivere in questo modo (è firmato con lo pseudonimo: Santhippe-Socrathe) bisogna conoscere davvero la storia della filosofia ed avere spirito, cultura ed intelligenza per riuscire a declinarla ed argomentarla in una forma così sottilmente - come dire - goliardica.
E noi vecchi "tiratardi", figli della Piazzetta, queste cose le apprezziamo, le gustiamo intimamente.

Speriamo anche voi.
E’ veramente delizioso.

STORIA DELLA FILOSOFIA DEL PERNACCHIO
DA ARISTOTELE
A CACCIARI

Il nostro doveroso omaggio va oggi alla Grecia, culla della civiltà occidentale. L'Ellade arcaica, in cui hanno visto la luce le arti, la letteratura, il teatro. E la filosofia. E proprio in questo paese, Eldorado della cultura, ha avuto origine questa branca fondamentale e imprescindibile nell'ambito della speculazione: la filosofia del Pernacchio. 'O pernàkios, argomento sotteso al pensiero dei più eccelsi philòsophoi, il cui cammino, attraverso deviazioni inevitabili nei vari paesi dell'Europa, traccia un fil rouge immaginario dalla sua fonte ellenica fino alla immortale Napoli.

Per gli Aristotelici il Pernacchio include il rapporto con gli altri. Ovvero, il Pernacchio è dialettica. Posso dedurre e indurre le cause che conducono al Pernacchio anche da solo, ma per esplicitare il contenuto del Pernacchio ho bisogno degli altri.
Platone sostiene che il Pernacchio è la causa finale, il motivo per cui avviene è il suo fine stesso; la causa finale di un Pernacchio è esternare l’idea del dissenso, dare forma alla critica esplicita; l’idea del Pernacchio è la causa finale del Pernacchio.
Epicuro distingue tra Pernacchio cinetico o in movimento, e Pernacchio catastematico o stabile. Ogni Pernacchio è di per sé un bene, ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi. Contrariamente ai cirenaici, che indicavano nel Pernacchio in movimento il piacere, ovvero, l'obiettivo da perseguire, Epicuro ripone il Fine nel Pernacchio statico o piacere catastematico. Solo nel Pernacchio catestamatico l’uomo risolve la completa soddisfazione del desiderio, che di per sè é piacere.
Per i dotti della semiotica il Pernacchio è quella cosa che, nella comunicazione, lascia il segno. Per Kant il Pernacchio é uscire dallo stato apparente di minorità intellettuale, divenire maggiorenni sul piano razionale e imparare a pensare con la propria testa. Kant definisce così il Pernacchio : l' uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso [ ... ] abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Il Pernacchio, dunque, riscatta l’uomo e la sua intelligenza. E nella sua Critica alla ragion pura egli dirà che il Pernacchio è l' unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà.
Con Hegel la fenomenologia del Pernacchio si sostanzia di una valenza idealistica: esso trova il suo fondamento nelle idee, nella mente dell'individuo. Hegel descrive il cammino che deve intraprendere il Pernacchio che, partendo dallo spirito, raggiunge la piena consapevolezza di sè e della realtà nella realizzazione fenomenica, nella sua esplicitazione: dal noumeno (l'idea) al fenomeno (la realtà). Tutto ciò avviene in tre fasi: la tesi, che afferma ciò che si conosce, l'antitesi, che mette in discussione ciò che si pensa di conoscere e infine l'apoteosi, l'esplosione della sintesi: il Pernacchio!
Ma il vero trionfo del Pernacchio avviene nel momento della filosofia positivistica, quando i pensatori, a partire da Comte, studiano scientificamente le sue potenzialità eudemonistiche.
Attraverso la legge deterministica applicata al Pernacchio si può creare una società felice. L'uomo, anche il più diseredato, l'appartenente all'infimo sottoproletariato urbano può, attraverso la causa- effetto del Pernacchio, conseguire la misura liberatoria della sua esistenza e la piena realizzazione di sè.
Per Marx il Pernacchio è epifenomeno dell’economia. Solo partendo dal Pernacchio è possibile spiegare il Capitale. Non è la coscienza di essere proletari che determina il Pernacchio, ma è il Pernacchio a determinare la coscienza del proletariato. Il Pernacchio serve a ricercare quelle condizioni necessarie che hanno reso inevitabile la condizione di servaggio (la causa) e che ne rendono non meno inevitabile il superamento (il fine). Il Pernacchio è la Sveglia dei popoli. Diventerà il motto del Partito Comunista, e sarà metabolizzato dalla Storia e dal pensiero dormiente di tutto il novecento fino al “Cominciamento” del filosofo dei nostri tempi, Massimo Cacciari, attuale Sindaco di Venezia; per Cacciari il Pernacchio non è solo il fine, la cosa ultima, ma è anche l’Inizio, ovvero, il Pernacchio è un continuum o, come dice Lui, “l’infinità” stessa della cosa nella sua inalienabile e intramontabile singolarità, in movimento”. Viene così confutata l’idea del Pernacchio statico d’Epicuro, riprendendo il paradigma cirenaico, o teoria del Pernacchio in movimento. Per tutti, da Aristotele a Cacciari, il Pernacchio è liberazione, è anche Sveglia dei popoli, è soprattutto Libertà. Per Eduardo, no! L’attore napoletano sintetizza 2.500 anni di pensiero filosofico complesso in un’unica e semplice enunciazione: il Pernacchio è una convenienza!
Il compito dell'artista, dell’uomo, consiste, in ogni caso speciale, nella pratica applicazione di questa legge d'intima, di assoluta, d'infrangibile convenienza, che è idea, fine, causa e piacere, Cosa Ultima, Inizio e Cominciamento, principio stabile e dinamico, soprattutto dialettica di libertà e di liberamento. Con metodo.
«Il Pernacchio deve essere di testa e di petto, ovvero deve fondere insieme cervello e passione, ragione e follia, vi posso anche dire, in tutta confidenza che il vero Pernacchio non esiste più, quello attuale, corrente si chiama pernacchia, è una cosa volgare, brutta, il Pernacchio classico è un’arte!
Eduardo: "Siamo.. tre o forse quattro a conoscerlo profondamente e praticarlo in tutta Napoli il che vuol dire in tutto il Mondo. Insomma il Pernacchio che dobbiamo fare a questo signore deve significare: “tu sì a schifezza, ra schifezza, ra schifezza, ra schifezza e l’uòmmene! Mi spiego?”…»

Solo nel momento felice del Pernacchio ogni uomo è vero.

Ecco qui la celebre "lezione" di Eduardo:

 
Bellissimo!

E' una clip da "L'oro di Napoli" (1954), un classico della storia del cinema tratto dalla raccolta omonima di racconti di Giuseppe Marotta (1947) e adattati per il cinema da Cesare Zavattini.
Dei sei episodi previsti, uno, "Il funeralino" fu escluso dal montaggio. Ogni episodio ha come interprete principale un nome di primissimo piano: Toto' ne "Il guappo", Eduardo De Filippo ne "Il professore" (questo), Sophia Loren in "Pizze a credito", Vittorio De Sica ne "I giocatori" e Silvana Mangano in "Teresa".
Il luogo dove è stata girata questa scena è nel bel mezzo del centro storico di Napoli, precisamente in Vico Purgatorio ad Arco. Oggi, il basso dove Eduardo recita, è in affitto, ed è un garage di motorini.

Regia: Vittorio De Sica.
Soggetto: Giuseppe Marotta.
Sceneggiatura: Cesare Zavattini, Giuseppe Marotta, Vittorio De Sica.
Produttore: Dino De Laurentiis, Carlo Ponti.

Visto che nomi hanno lavorato attorno a questa "scenetta"!
Ah, grande Eduardo e grande cinema italiano!

Post scriptum:

Sulla rete si trova l’M.L.P. (Movimento per la Liberazione del Pernacchio): qui.
Nel suo manifesto si legge fra l’altro: “Contro questa cultura dell'ovvio, della rissa e della truculenza, c'è una sola vera arma di difesa: il pernacchio. Il pernacchio è popolare, rivoluzionario, democratico. Uno solo, se fatto a dovere, delegittima all'istante il potere tronfio, il linguaggio truculento, il tecnicismo banale mascherato da politica.
Li stende tutti a terra lasciandoli attoniti e senza respiro. Questa cultura una volta era diffusa.
Chiunque parlasse, sapeva che nell'aria c'erano tanti pernacchi pronte a scaricarsi come un fulmine.”.
Questo un pot-pourri dei commenti.
Dissacrante e tremendamente liberatorio. Un pernacchio è una forma artistica di dissenso. Va coltivata e diffusa e quale maestro migliore di De Filippo? Ogni riferimento a fatti e fattacci recenti è dichiaratamente voluto. Invito ad accodarvi al pernacchio day...un modo come un altro per dissentire, mostrare distanza...ironizzare, dissacrare, satireggiare"...ridacchiare (che a ridere, di questi tempi, si fa peccato mortale), sogghignare, sghignazzare.
Ma sì...spernacchiare non sarà da signora...ma quando ce vò...ce vò!
Il pernacchio ha la stessa potenza e, forse, lo stesso suono delle Trombe del Giudizio, è una particella di espressività divina regalata all'umanità. La riprova è che viene usata spesso dagli uomini più vicini al divino: i pazzi, i buffoni ed i bambini.
E’ universale, possono farla uomini, donne, bambini e vecchi. È trasversale.
In molte occasioni è la soluzione ideale, perché sta a metà tra il linguaggio verbale e non-verbale, la voce e la prossemica, per scoronare situazioni, comportamenti...
Buona parte delle nostre sventure civili nascono dal fatto che non si spernacchia più, o non abbastanza. Siamo passivi, brontoliamo al bar, preferiamo delegare. Il pernacchio è critica ad alta voce, contestazione frontale, dissenso informato, consapevole, preciso, documentato, chirurgico. Il gesto, potenzialmente rivoluzionario, che unisce cervello e passione, come dice Eduardo. Anche a spernacchiare si impara. Ma la convinzione, quella nessuno la può insegnare.
Dal punto di vista linguistico:
pernacchio: vc. meridionale da vernaculum (in italiano: “vernacchio” nel D'Ambra, che lo attesta con G. B. De la Porta 1596), quindi volgare, plebeo.
“Vernacchio”, quindi, è un tipico gesto scurrile e molto antico, tanto è vero che lo descrivono Petronio nel Satyricon e Tito Livio nell' Historia magistra vitae. Molto più efficace di tante parole, in certe circostanze, il pernacchio napoletano è una vera e propria arte.
Andrea De Jorio a pag. 75 de “La mimica degli Antichi investigata nel gestire napoletano” (qui, su Google-libri si trova l'intero volume) dà la seguente definizione: “bocca gonfia d'aria e forzatamente chiusa, mano aperta e portata rovescia sul labbro superiore in modo che esso sia compresso dallo spazio che è fra l'indice e il pollice. Disposte così le dita sul labbro superiore e premendolo a replicati colpi, si viene a comprimere la bocca già oltremodo gonfia d'aria, la quale, forzata dagli urti interpellati, nell'uscirne a diverse riprese, farà gli scrosci, che sono quelli a cui si dà il nome di vernacchio”. Tale gesto è stato utilizzato anche nel cinema e nel teatro, specialmente dai celebri Totò e Eduardo De Filippo. L'idea di insulto e di oltraggio che gli si attribuisce nasce dalla somiglianza che il rumore del vernacchio produce con quello che il nostro corpo emette quando espelliamo l'aria chiusa nei nostri visceri.”.
rp

sabato 1 dicembre 2012

Lorenzo Parodi, in memoriam.

Oggi è improvvisamente scomparso Lorenzo Parodi.
Conosciutissimo, era stato a lungo componente del Consiglio di Amministrazione e sempre in prima linea in ogni attività sociale.
Con l’avanzare dell’età aveva “tirato un po’ i remi in barca” ma ancora l’anno scorso, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Consiglio, era stato componente del Collegio degli Scrutatori.
In ogni occasione il suo contributo non ha mai mancato di essere rigoroso, preciso e pacato, ben determinato nella difesa degli interessi e delle prerogative della Società.
Un fedelissimo che ricorderemo sempre con affetto e sincero rimpianto.
Alla moglie Anna, ai figli Alberto ed Andrea ed alle loro famiglie le più fraterne condoglianze.