domenica 25 novembre 2012

136° della fondazione della Società: Assemblea e pranzo sociale.

Il prossimo 10 dicembre ricorrerà il 136° anniversario della fondazione della Società. Come prevede lo Statuto e rinnovando una consolidata tradizione, ricorderemo questa ricorrenza il prossimo 8 dicembre con l’Assemblea dei Soci che si svolgerà nella Sala delle riunioni del Consiglio al 1° piano della Sede sociale, alle ore 8,30 in prima convocazione ed alle ore 10,15 in seconda convocazione.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 16, § 2, dello Statuto: “Ogni Socio - mediante delega scritta - può farsi rappresentare nell'Assemblea da un altro Socio avente diritto di voto e che non faccia parte degli organi di governo...né che rivesta gli incarichi sociali... Ogni Socio personalmente presente non può rappresentare più di un Socio.”.
All’Assemblea farà seguito il pranzo sociale che si terrà presso l’agriturismo Ca’ dell’Aglio a Momperone (Frazione Casa dell'Aglio, 2).
Il Consiglio invita tutti Soci ad essere presenti: queste occasioni di fraternità (“di famiglia”, per così dire) sono, tra gli altri, gli elementi costitutivi del nostro Sodalizio.
Il costo del pranzo (sei antipasti, due primi, sorbetto, tre secondi, dolce, vino e caffè) è di € 30; per i Soci e loro famigliari: € 27.
Per evidenti ragioni organizzative, è indispensabile effettuare quanto prima la prenotazione:
* telefonando alla Società: n. 3206044925, dalle 19 alle 21;
* oppure, scrivendo all’e.mail: sms.sangiulianovecchio@gmail.com

martedì 20 novembre 2012

Personaggi: don Gatti, di Viguzzolo.

I recenti avvenimento del conflitto arabo-israeliano hanno riportato alla memoria la vicenda umana e storica di un personaggio che, sebbene non propriamente concittadino, è comunque un conterraneo della nostra Provincia che vale la pena di rcordare.
Si tratta di un prete di Viguzzolo: don Giuseppe Gatti.
Don Gatti era nato a Viguzzolo il 19 ottobre 1839 da povera famiglia di contadini. Dopo gli studi nel Seminario diocesano di Tortona, fu ordinato sacerdote il 21 maggio 1864. Si trasferì subito a Gerusalemme dove arrivò il 20 aprile 1865 (a meno di 26 anni di età), cominciando il suo ministero nel Patriarcato latino (ricostituito il 23 luglio 1847 dal papa Pio IX) che, oltre a Gerusalemme, estendeva la propria competenza territoriale su tutta la Palestina, la Giordania e Cipro.
Inizialmente svolse il suo apostolato a Et-Taiyibe, a 10 Km da Betel, luogo importantissimo nella storia biblica in quanto legato soprattutto al ricordo dei Patriarchi: qui Abramo si fermò al ritorno da Sichem (Gen. 12, 8) e Giacobbe ebbe la prima teofanìa: il sogno della scala (Gen 28, 10-29).
Et-Taiyibe (che in arabo significa: "la buona", era nel territorio “al di qua” del fiume Giordano: la Cisgiordania; ed è identificata con la cittadina di Efrem o Efraim di cui parla l’Evangelista Giovanni nel Nuovo Testamento) è ancora oggi tutta cristiana, è situata su un colle roccioso a 869 mt di altitudine dal quale domina tutto il deserto che scende a est fino al Giordano.
Nel novembre del 1868 (a 29 anni) fu nominato parroco di Ramallah (che in arabo significa: "altura di Dio"). A quel tempo era un villaggio, pare, non molto importante. I suoi dintorni erano fra le zone più ricche della Cisgiordania e, prima dell’occupazione israeliana, era meta dei giordani benestanti che vi si rifugiavano per sfuggire al caldo della capitale, Amman. Dopo la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese è divenuta la capitale dei nuovi territori autonomi, sede del governo e del suo Presidente.
Rimase a Ramallah fino al 1871 quando, a 32 anni, fu nominato parroco di As-Salt, attualmente pure in Giordania, a una trentina di chilometri a nord-ovest di Amman. A quel tempo era il centro più importante di quel territorio che, essendo “al di là” - ad est - del fiume Giordano, si chiamava: Transgiordania. Antico insediamento romano, nel primo Ottocento divenne un attivo mercato ai margini dell’Impero ottomano e, negli ultimi decenni del secolo, fu scelta come capoluogo amministrativo (di fatto, capitale) della Transgiordania. Nella seconda metà del XIX sec. fu sede del primo ospedale e nel 1924 poté vantare la prima scuola superiore a livello universitario del Paese.
Fra il 1881 ed il 1886 completò la costruzione della Chiesa parrocchiale che fu benedetta nell’ottobre dello stesso anno. Rimase ad As-Salt fino alla sua morte avvenuta, a soli 48 anni di età, il 18 settembre 1887. Fu sepolto nella stessa Chiesa parrocchiale.
Indubbiamente don Gatti pare un personaggio la cui vicenda umana e missionaria debba essere approfondita accuratamente per mostrarne con la dovuta compiutezza le caratteristiche che certamente onorano innanzitutto il suo paese, Viguzzolo, ed, in generale, le valli del nostro Appennino, chiamiamolo così, "tortonese". Sarebbe interessante investigare sulle motivazioni, in rapporto al momento storico locale e generale, che indussero un giovane sacerdote appena ordinato, venticinquenne, a lasciare le verdi colline della sua terra per andare in Palestina, nel deserto; si badi bene: a metà Ottocento, affrontando così un viaggio che definire avventuroso, è dire poca cosa. Infatti, il Gatti, partito da Viguzzolo o Tortona a piedi per Genova, seguendo gli itinerari di viaggio consueti in quel tempo, dovrebbe aver raggiunto in nave (sicuramente ancora un veliero) Alessandria d’Egitto e di lì, via terra con i mezzi di trasporto in allora normalmente usuali (vale a dire i propri piedi o animali: cammelli, asini, etc.), arrivò a Gerusalemme.
Comunque, il primo dato che emerge è sicuramente l’esistenza di un impegno di missionarietà vissuto sulla “propria pelle” alla cui base v’è probabilmente un “comune sentire” della gente di quelle vallate del Curone. Un coraggio ed un impegno che oggi raramente è possibile trovare in un contesto (anche "giovanile", purtroppo) fatto di comodità "irrinunciabili".
Tutto questo andrebbe debitamente valorizzato soprattutto oggi alla luce dei drammatici avvenimenti che continuano a sconvolgere la Palestina e talvolta anche la stessa città dove don Gatti esercitò il suo primo ministero parrocchiale: Ramallah che, come si è detto, è la capitale dell’Autorità Nazionale Palestinese e residenza del suo Presidente.
 
 Nell'immagine: fotografia di don Gatti con il tipico abbigliamento arabo.

venerdì 16 novembre 2012

Brodo apostolorum...il brodino per i Papi.

In un post precedente (qui) si è detto di un grande cuoco del XVI sec., Bartolomeo Scappi che fu al servizio del “nostro” S. Pio V di Bosco marengo cheda Cardinale veniva chiamato ed egli stesso si firmava: l’Alessandrino.
Lo Scappi era nato probabilmente verso il 1500. Il primo evento noto della sua carriera fu nell'aprile del 1536 quando organizzò un banchetto al servizio del cardinale Lorenzo Campeggio. Servì alla corte di altri cardinali, fino a divenire cuoco delle cucine vaticane sotto il papa Pio IV Medici. Continuò successivamente, appunto, come cuoco sotto S. Pio V. Morì il 13 aprile del 1577 e fu sepolto nella chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio alla Regola, dedicata ai cuochi e ai fornai. Al culmine della sua carriera pubblicò il più grande trattato di cucina del tempo (l' "Opera") che includeva oltre mille ricette, gli strumenti di cucina e tutto ciò che doveva conoscere un cuoco rinascimentale di alto livello. Nell' "Opera" si ha la prima raffigurazione conosciuta di una forchetta e vengono introdotti nuovi metodi di preparazione e l'uso di ingredienti importati dalle Americhe. In essa inoltre Scappi definisce il parmigiano il miglior formaggio al mondo. Ebbe grande successo e venne ristampata regolarmente fino al 1643. Includendo numerose ricette di pasta, pasta ripiena, torte, e altri prodotti a base di pasta sfoglia e pasta frolla, l' "Opera" anticipa molte caratteristiche di quella che diventerà la cucina italiana moderna. Ma, come abbiamo detto, l’aspetto che più ci interessa è il servizio che lo Scappi rese a S. Pio V. Domenicano (già nominato da Paolo IV Carafa, Grande Inquisitore) arrivò come un flagello nella Roma papalina e gaudente di fine ‘500. Severo e intransigente, quasi più con se stesso che con gli altri, fustigatore dei costumi e della corruzione, rappresentò il frutto del Concilio di Trento.
La sua elezione, avvenuta nel 1566, fece tremare la Curia, niente festeggiamenti e sontuosi banchetti per solennizzare l’evento, ma il denaro delle cerimonie distribuito ai bisognosi. Addio dunque alle gozzoviglie d’ogni tipo e alle cariche onorifiche, regalate a nipoti ed intrallazzatori, per trasformare la gaudente Roma in una specie di convento di clausura. Questo Papa, che dormiva pochissimo e mangiava solo povere cose, curiosamente si ritrovò come capo della cucina il più grande cuoco del ‘500. S. Pio V, al quale imputarono un unico peccato di gola, il latte d’asina ritenuto all’epoca la panacea per il “mal della pietra” (calcoli renali di cui poi morirà; in realtà, si dice anche che soffrisse di prostata), non sappiamo se apprezzò lo Scappi in tutta la sua grandezza, o la ritenne l’ultimo sussulto pagano e godereccio di un’epoca al tramonto. Ma uno chef di tale rango, che nella prefazione della sua “Opera” fra le credenziali presenta anche quella di “Cuoco Segreto di Sua Santità Papa Pio V”, per lo stomaco papale quale ricetta avrebbe potuto preparare? Lo Scappi, in grado di imbandire qualsiasi tipo di menù, sia per gli importanti personaggi che per gli “infermi” (a cui dedica il libro VI del suo trattato), potrebbe aver elaborato per papa Ghislieri la minestrina di prezzemolo ed erbette passata alla storia come Brodo Apostolorum, dove si mescolano ad arte nutrimento e santità.
Secondo il sommesso e dimesso parere di chi scrive si tratta di una versione "aulica" della nostra più popolare panada. Ed anche del "brodetto pasquale" della cucina romana.

Eccovi, dunque, la ricetta di questo Brodo.
Per far minestra di petrosemolo et altre herbette dimandata nelle corti di Roma.
Habbisi brodo di carne, dove siano bollite cervellate (salsicce) gialle et barbaglie (gole) di porco e schiena di castrato, et esso sia tinto di zafferano mescolato con pepe e cannella e nel tempo dell’estate pongasi con esse uva spina o agresto intero; e quando saranno cotte este materie pigliasi il petrosemolo ben netto e lavato con altre erbucce e si taglino minute e pongasi in esto brodo; e levato che avverrà il bollito servasi subito con fette di pane sotto e le carni siano compartite in pezzuoli nel piatto. Avvertasi però che… starà in arbitrio se si vorrà maritare con cascio grattato e uova sbattute”.
Ed eccovi anche altre ricette dello Scappi.
Per far minestra di tortelli d'herba alla Lombarda
Piglinosi biete, & spinaci, taglinosi minute, & lavinosi in piu acque, & strucchi fuori l'acqua, faccianosi soffriggere con butiro fresco, & con esse ponasi a bollire una brancata d'herbe odorifere, & cavinosi, & ponganosi in un vaso di terra oo di rame stagnato, & giungavisi cascio Parmeggiano grattato, & cascio grasso, tanto dell'uno quanto dell'altro, & pepe, cannella, garofani, zafferano, uva passa, & uove crude abastanza; & se la compositione fosse troppo liquida pongavisi pan grattato, ma se sarà troppo soda, metavisi un poco piu di butiro, & habbiasi un sfoglio di pasta fatta nel modo che se dice nel capitolo 177. E faccianosi i tortelli piccoli, & grandi, facendoli cuocere in buon brodo di carne, & servanosi con cascio,. zuccaro, & cannella sopra.
Per fare cuocere maccaroni in più modi per giorno quadragesimale
Pigliasi una libbra di fior di farina, e una libbra di pan grattato, passato per lo foratoro minuto, impastasi ogni cosa, con acqua che bolla, oglio d'olive mescolato con un poco di zafferano e facciasi la pasta che nò sia troppo soda, ma ben mescolata sopra una tavola, e come haverà preso il caldo, faccianosi i gnocchi cioè maccaroni sopra la grattacascio, e ponganosi a cuocere in acqua che bolla cò un poco di sale, e come saranno cotti, cavinosi, e ponganosi in un vaso di terra o di legno, mettasi sopra una agliata fatta di noci teste, spigoli d'aglio, pepe e polpa di pane ammogliata nell'acqua calda, mescolasi ogni cosa insieme, e servanosi con pepe, e cannella sopra.
Per far potaggio di pesce e salmone
Pigliasi il pesce salmone, nettasi della pelle e tagliasi in bocconi, e pongasi in un vaso con cipolle soffritte, e prugne, oglio, vino bianco e un poco di aceto, acqua e mosto cotto, e sia la compositione tanta che il salmone sia coperto di tre dita, giungendovi pepe, cannella, garofani, noci moscate con zafferano, e facciasi finir di cuocere, e nell'ultimo prima che si voglia servire pongasi una mano di herbette battute. Servasi cosi caldo con la sua compositione sopra.
Per far pisto de polli cotto in pasticci
Piglisi il petto del pollo carnuto, non pastato, morto di quel giorno, allessasi con acqua, e un poco di sale, fin'a tanto che sia piu di mezzo cotto, pestinosi poi nel mortaro con mollica di pane sottestato over imbeverato nel brodo magro, quattro once di mandole, once tre di zuccaro. Pesta che sarà ogni cosa con brodo magro del detto pollo si stemprerà se sarà ben pisto, non occorrerà passarlo, ma solo giungerai un poco d'uva passa di Corinto, ed un poco di sugo di melangole, e ogni cosa si ponerà in una cassa di pasticcio, la quale sia un poco sodetta, di modo che possa tener la compositione, facciasi cuocere al forno con fuoco lento, over sotto il testo, senza esser coperto il pasticcio, percioche basta che habbia un poco di corpo. Servasi caldo perchè così vuol essere.
Per fare pasticcio di coscia di vitella mongana
Se la vitella sarà piccola, piglisi la coscia intera, ma sendo grossa, si puo compartire in piu pezzi, privisi di quella pellicina che ha in circa, e volendogli lasciare l'osso, sarà in arbitrio: facciasi stare in una composizione per tre hore, fatta di pepe, garofali, cannella , noci moscate, e sale, il simile i pilloti, con la quale a da essere impillottata, ma se prima si vorrà rifare sulla graticola, sarà in arbitrio, perche rifacendola il sugo resta in essa carne, e si sgonfia, e nel cuocere che si fa, non è cosi pericoloso il pasticcio di crepare, per tanto, stata che sarà in la composizione, ò rifatta, ò no, s'impillotti per il lungo di lardo, e habbiasi un sfoglio tondo fatto di farina grossa, e si ponga detta carne in detto sfoglio, con fette di lardo sotto e sopra, spolverizzate della medesima spetieria, e bagnasi il foglio con ove sbattute, ò con acqua : chiudasi e facciasi il suo oratello in circa, e il pecollo donde possa sfiatare, quando sarà il tempo: diesigli il colore con ova sbattute, ovvero con acqua tinta di zafferano, ò dopo che è cotto cosi caldo si puo hancora dare il colore con una cotica di lardo. Tal pasticcio vuole cuocersi adagio, e non vuole il fuoco troppo impresso, e essendo il pezzo di sei libre, non vuole manco di due hore e mezza ha cuocere: ma piu sendo la coscia intera, e per conservarlo che non pigli troppoo colore di sopra, se gli metta sopra soglie di carta straccia e cotto che sarà si potrà servire caldo, e conservare l'estate per quattro giorni, e l'invernata per otto, vero è che quando si vogliono conservare, se gli pone piu sale, e piu spetierie, e sopra tutto turare il buco di sopra, e ogni loco dove fusse crepato, perche quando l'aere penetra il pasticcio, in breve si muffisse, e putrefà e vuole essere conservato in luogo asciutto, non troppo humido, ne troppo caldo.
Per far torta reali di pignoli, e mandole, et altre materie
Mondasi una libra di amandole ambrosine, state in mollo nell'acqua fredda per otto hore, e monde che saranno si pestino nel mortaro, con altrettantti pignoli mondi, che siano stati in mollo in acqua fredda per sei hore, e pista che sarà ogni cosa con due libre di zuccaro fino, giungasi con essi otto capi di latte freschi, ovvero una libra e mezza di fiorita pecorina fresca, e non havendo nè l'uno nè l'altro, pigliasi mozzarelle fresche, ma meglio sarà sempre i capi di latte, giungasi con esse materie; sei rossi d'ova freschi sbattuti, e quattro oncie di mele appie ben piste nel mortaro e, e un grano di muschio, e mezza oncia di gengevero e un poco d'acua rosa e nò volendosi biancata luogo di gengevero pongansi garofali, cannella, noci moscate, e habbisi apparecchiata la tortiera, con un sfoglio di pasta reale sotto alquanto grossetto, e il suo tortiglione sfogliato incirca, fatto di fior di farina, zuccaro, butiro, acqua rosa, e sale a bastanza, e mettasi dentro la compositione, di modo che non sia nè troppo alta, nè troppo bassa, e facciasi cuocere nel forno, come i marzapani, facendoli la sua crostata di zuccaro, e acqua rosa, e si serve calda o fredda a beneplacito.
Per far minestra di sparagi salvatici et domestici
Piglisi la parte piu tenera, facciasi bollire nell'acqua calda fin'a tanto che divengano teneri, dapoi si facciano finire di cuocere in buon brodo di cappone, o di vitella, et con pochissimo brodo vogliono servirsi. Con li salvatici si puo cuocere dell'uva passa. Li domestici cotti che saranno nel brodo, et non disfatti si possono servire con sugo di melangole, zuccaro, et sale, et in giorno di magro, o di vigilta si terrà l'ordine de gli altri herbami.
Ma chi era veramente Bartolomeo Scappi, cavaliere del Giglio e Comes Palatinus Lateranensis al servizio di quattro papi? Lo spiega con precisione il volume “Il cuoco segreto dei papi” di June di Schino e Furio Luccichenti (Gangemi Editore, 224 pagine, 35 €) che ricostruisce, sulla base di un'ampia ricerca archivistica e di un pregevole corredo fotografico in alta definizione, la vita del celebre «chef» del '500, descrivendo il ruolo e le vicende della Confraternita dei Cuochi e Pasticceri a cui apparteneva. Il libro comprende un’antologia della monumentale "Opera" che Scappi scrisse al culmine della carriera (Venezia, 1570) e ventotto tavole, con cui l’autore corredò il testo per illustrare l'architettura delle cucine e gli "instromenti, ordigni e masserizie" necessari a esercitare l'arte del cuoco nella Roma rinascimentale. Il libro appena uscito ha subito vinto il prestigioso Premio Bancarella dell’Accademia Italiana della cucina: «Il volume - spiega l'autrice - è frutto di cinque anni di perseverante ricerca negli archivi vaticani. Cinque anni che mi hanno consentito di scoprire l'esatta data del primo testamento (1571) e della morte dello Scappi (13 aprile 1577) e il luogo in cui fu sepolto, la chiesa di San Vincenzo della Confraternita dei Cuochi e Pasticcieri a Roma. Morendo, Bartolomeo lascò dei soldi alla Confraternita che ebbe ancora lunga vita poichè l'ultimo presidente fu nientemeno che Giuseppe Garibaldi». L’ "Opera" di Scappi fu un libro assolutamente innovativo per la sua epoca. Conteneva più di mille ricette, ottenne il privilegio di stampa dell’Inquisizione e introdusse nuove conoscenze nella gastronomia rinascimentale. «Esso rivela che nel '500 a Venezia era in auge la moda delle colazioni a base di frutta e verdura candite – spiega la Di Schino - Le verdure erano allora considerate cibo plebeo ma il cuoco, che era di umili origini, le trasforma in cibo per i nobili inventando piatti raffinati come il brodo apostolorum con le erbe tritate». Per un altro grande gastronomo del passato, Bartolomeo Platina, mangiare pesce portava malattie, Scappi elenca invece ricette con ben 75 tipi di pesce (“nessuno lo cucina meglio dei pescatori di Chioggia”, precisa). «L'Opera non fu mai tradotta in alcuna lingua straniera – osserva ancora la Di Schino - ma fu copiata in tutte le lingue, dai Paesi Bassi alla Spagna, dove Diego Granado Maldonada utilizzò a proprio nome gran parte delle ricette di Scappi nel “Libro del Arte de cozina”, edito nel 1599».
Si può consultare l'Opera dello Scappi: qui.
R.P.

domenica 11 novembre 2012

San Martino.

Il mantello di S. Martino

Quando Martino era ancora un militare, ebbe la visione che divenne l'episodio più narrato della sua vita e quello più usato dall'iconografia e dalla aneddotica. Si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi, nell'Oratorio reale. I Franchi la portavano come stendardo in guerra, davanti alle truppe, fidando nella protezione del santo patrono.
Ora, in latino: mantello, di dice cappa; ed il "matello corto" o "mantellino": cappella.
Quest'ultimo termine venne esteso alle persone incaricate di conservare il residuo del mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all'Oratorio reale, che non era una chiesa, e che perciò fu chiamato cappella. Ecco perchè tutte le piccole chiese, oratori perchè destinate alla sola preghiera e non alla liturgia o altro, si chiamano: cappelle.
Ed i cori che si riunivano in oratori per studiare il canto specialmente quello liturgico, assunsero il nome che hanno tuttora, di "cappelle musicali" e poichè in questi oratori non v'erano strumenti per accompagnare il canto, ancora oggi per un coro "cantare a cappella", significa - appunto - cantare senza alcun accompagnamento strumentale.
Da Carlomagno la cappa di San Martino venne inviata all'oratorio palatino di Aquisgrana, che da allora si chiamerà, in francese Aix-la-chapelle; Aachen, in tedesco.
Dalla cappa di Martino prese nome, perfino, la dinastia reale francese dei "Capetingi" in quanto gli antichi re di Francia usavano rivestirsi, almeno nel giorno dell'incoronazione o nelle occasioni più solenni ed importanti, della "cappa" o "cappella" di S. Martino..

Nell'immagine l'episodio è raffigurato su un capitello del chiostro dell'Abbazia di St-Pierre-de Moissac in Francia. S. Martino è protettore di questa nazione e dell'Arma di Fanteria del nostro Esercito.
Per conoscere la storia dell'Abbazia e per conoscere come l'insipienza umana abbia quasi distrutto un'Abbazia del VII secolo (cioè quattrocento anni prima del Mille...!) costruita sulle fondamenta di una precedente del IV sec., si legga qui. Oggi il monumento è stato dichiarato "patrimonio mondiale dell'umanità" ed appartiene alle "Strade del Commino di Santiago di Compostela".

L'estate di San Martino

Nei primi giorni di novembre, San Martino è in viaggio per paesi molto freddi. Il Santo passa sul suo cavallo coperto dal suo mantello. Due poveri mendicanti, mal coperti nei loro poveri cenci estivi, domandano al forte e bel cavaliere la carità. Egli sen'altro si leva il mantello, lo taglia con la spada in due parti e ne porge una al mendicante più vicino. "E a me? - domanda l’altro mendicante -non date nulla signore?" Martino allora, con la spada, taglia la metà rimasta del mantello e porge al mendicante la quarta parte del mantello intero. Il primo mendicante ha metà del mantello, il Santo e l’altro mendicante un quarto del mantello ciascuno e così il sacrificio del Santo è inutile perchè, col freddo che fa, nessuno è ben riparto e tutti soffrono. Allora il buon Dio comanda a Novembre di rasserenare il cielo e di mitigare l’aria per tutta la durata del viaggio di Martino. E siccome Dio non ritira mai i suoi ordini, i primi giorni di novembre sono sempre rallegrati da un tepido sole. Noi chiamiamo quest’epoca l’ "estate di San Martino".

S. Martino e le oche.
In Italia, per tradizione, il giorno di San Martino si aprono le botti per il primo assaggio del vino novello, accompagnato dalle prime castagne. Un tempo però in questo stesso giorno aveva termine, in molte zone del nord, l’anno lavorativo dei contadini. Se il padrone non chiedeva loro di restare a lavorare per lui anche l’anno dopo, questi dovevano traslocare e andare a cercare un altro padrone e un altro alloggio. Pure in città divenne abituale, per chi aveva un alloggio in affitto, cambiare casa proprio a San Martino, perciò “fare San Martino” è diventato un modo per dire “cambio casa”.
Va ricordato anche che in passato il periodo di penitenza e digiuno che precede il Natale cominciava il 12 novembre e quindi, anche per questo motivo il giorno prima, per San Martino appunto, si faceva una grande mangiata d’oca o di tacchino; era una specie di capodanno contadino e l’oca era considerata il maiale dei poveri. In ogni modo la scelta del grasso volatile come cibo tipico della festa di San Martino non è casuale perché dietro la popolare usanza gastronomica si celano vestigia di antiche credenze religiose che deriverebbero dalle celebrazioni del Samuin celtico: l'oca di san Martino sarebbe dunque una discendente di quelle oche sacre ai Celti, simboli del Messaggero divino, che accompagnavano le anime dei defunti nell'aldilà.
Una curiosità: nella cucina tradizionale romana non vi sono ricette per cucinare l'oca, forse per ancestrale riconoscenza dei Romani verso questi volatili, simbolo di fedeltà e vigilanza. D'altronde le oche che sorvegliavano il tempio della dea Giunone al Campidoglio riuscirono a salvare il colle dall'invasione dei Galli nel 390 a.C. dando l'allarme con le loro strida!
Questa tradizione di cibarsi dell'oca nel giorno di S. Martino affonda le sue radici nei secoli più antichi . L'oca costituì assieme al maiale la riserva di grassi e proteine durante l'inverno del povero contadino che si cibava quasi sempre solo di cereali e di grandi polente. Dopo gli egiziani sentiamo parlare dell'oca da Omero che ci narra che i Greci tenevano l'oca come allegro compagno d'infanzia, come guardiano. Anche i romani tenevano in grande considerazione le oche che servivano da guardiani notturni del tempio della dea Giunone nel Campidoglio. Le oche venivano ingrassate con fichi secchi provenienti dalle regioni meridionali per rendere il fegato bello grasso. I romani chiamavano iecor il fegato e iecor ficatum quello grasso, da cui l'italiano "fegato".
L'oca fu sempre allevata anche nel periodo medioevale nei monasteri e nelle famiglie dei contadini, come ordinava Carlo Magno. A favorire la diffusione dell'oca furono attorno al 1400 alcune comunità ebraiche di rito aschenazita che si stabilirono, provenienti dall'Europa del nord, nelle regioni settentrionale della penisola e quindi anche nel Veneto . Per motivi religiosi non potevano consumare carne di maiale, così i loro macellai preparavano deliziosi salami e prosciuttini d'oca. L'oca era cibo prediletto dalle ricche famiglie ebree sul finire dell'ottocento. Risulta che fra i barbari che saccheggiarono Roma nel 390 a.C., sotto la guida di Brenno, il palmipede era pure "simbolo dell'aldilà" e guida dei pellegrini, ma anche della Grande Madre dell'Universo e dei viventi.
La zampa dell'oca veniva usata come "marchio" di riconoscimento dai maestri costruttori di cattedrali gotiche che si chiamavano Jars che in francese vuol dire oche.
San Martino

La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.
                                                                 
Giosuè Carducci

giovedì 8 novembre 2012

Albo d'Oro.

 
A conclusione di questa serie di posts di militaria, si informa che è intenzione della Società realizzare l' "Albo d'oro di San Giuliano Vecchio" cioè: raccogliere i nominativi e le relative memorie dei combattenti e dei caduti di tutte le guerre (a cominciare da quelle per l'Indipendenza fino all'ultima 1940-45).
Ed anche dei civili deportati, dei militari internati nei campi di concentramento e delle vittime civili della guerra 1940 - 45 nonchè dei perseguitati politici.
 
Tutti coloro che hanno notizie ed informazioni in proposito, sono invitati a comunicarli rivolgendosi al Presidente, Roberto Piccinini; o al Vicepresidente, Nuccio Piccinini; o al Segretario, Dino Ferretti;
o al Tesoriere, Marco Ferruccio.
Oppure:
* chiamando il numero: 3206044925 dal lunedì al venerdì: dalle ore 19 alle ore 21; la domenica:
   dalle ore 11 alle ore 12,30;
* scrivendo a: sms.sangiulianovecchio@gmail.com

martedì 6 novembre 2012

2° Rgt artiglieria da fortezza.-

Questo reparto non portò il nome della nostra Città, ma ne recava lo stemma sulle cartoline reggimentali.
 
 
 
 
 

domenica 4 novembre 2012

IV novembre.



 
 
Questa mattina una delegazione della Società composta dal Presidente, Roberto Piccinini; dal Vicepresidente Nuccio Piccinini; dal Segretario, Dino Ferretti, e dal Socio Rino Piccinini (nipote di Piccinini Angelo caduto della Grande guerra)  ha deposto una corona di alloro alle lapidi che, sulla facciata delle Scuole, ricordano i Caduti della 1^ guerra mondiale e di tutte le guerre.
Sono intervenuti il Presidente del Consiglio comunale di Alessandria, Enrico Mazzoni (nostro Socio) ed il Vicecomandante della Stazione dei Carabinieri, m.llo m. Marco Paolo Castioni.
 
 
 
Grazie a Sara Piccinini per le fotografie.