Chi segue il blog ha sicuramente letto il post relativo a Lucio Dalla ed alla sua esibizione nella nostra Sede sociale nel Ferragosto 1969 (qui).
Ma chi era Lucio Dalla in quel periodo di fine anni ’60, primi anni ’70?
A che punto era del suo cammino artistico quando la nostra Società lo scelse (come si è già detto: coraggiosamente) per i festeggiamenti della Festa patronale che, in quegli anni, erano il clou di tutta l’attività sociale annuale.
Ecco un frammento (acuto e preciso) della sua biografia tratto da “Lucio Dalla - Tra la via Emilia e la Luna” di Claudio Fabretti per “Ondarock”.
La storia non può non iniziare il 4 marzo 1943. Oltre a segnare la nascita di Lucio Dalla, infatti, la data diverrà anche il titolo di uno dei suoi grandi classici, meglio noto come "Gesù Bambino". Niente porti, però, né marinai a fargli da contorno, bensì la Bologna del dopoguerra, pronta a trainare l'Italia negli anni del boom. Lucio è un ragazzino sgraziato e irrequieto, con il pallino della musica. Suona il clarinetto, passando dal repertorio popolare emiliano al jazz di New Orleans. Inizia a esibirsi in pubblico fin da giovanissimo: sale da ballo a iosa, poi il jazz tradizionale, a Roma. Prima una breve militanza nella Reno Jazz Gang, poi l'approdo nella Second Roman New Orleans Jazz Band e infine nei Flippers, ensemble nato sotto l'egida del maestro Carlo Loffredo con, tra gli altri, Fabrizio Zampa, Massimo Catalano e Franco Bracardi.
Dalla è un ottimo clarinettista e un buffo cantante, che sperimenta tecniche ignote alla realtà italiana dell'epoca: vocalizzi estemporanei in stile "scat" (poi ripresi goffamente anche da Celentano), escursioni vocali disarmoniche al limite della stonatura, uno stile "black" che si rifà più alle asprezze proto-funk di James Brown che al "bel canto" soul di Marvin Gaye. E' Gino Paoli a scoprirlo e ad avviarlo alla carriera solista: in lui vede il primo cantante soul italiano. Ma soul, jazz e canzone sono per Dalla solo ingredienti per buffi divertissement musicali, scritti quasi per gioco. E infatti molti di questi non vengono neanche trasposti su vinile. Dal vivo, poi, l'esito è disastroso. Al Cantagiro del 1965 sono più i pomodori sul palco che gli applausi. Una volta - racconta in una bellissima intervista a Giancarlo Dotto - gli tirano una mela in pieno petto. Sente un male cane, e fa finta di cantare facendosi aiutare da un corista...
Ma Dalla è uno spirito libero, provocatore: se ne infischia della etichetta, va in giro vestito male, canta (per l'epoca) male, si pone male. Ed è anche parecchio bruttino. Di una bruttezza ispida, scontrosa, che non muove a simpatia o a tenerezza come quella del "molleggiato" Celentano. All'Italietta che canta "Non ho l'età" e lascia alla deriva Luigi Tenco, uno così non può certo piacere.
Testardamente, però, Dalla va avanti. Dal 1965 al 1970 prosegue il suo percorso eccentrico, che spesso entra in contatto con il movimento beat.
Nel 1966 scende nell'arena del festival di Sanremo con "Paff... bum": al suo fianco nientedimeno che gli Yardbirds, leggendario gruppo-culla del blues rock inglese. Il pezzo, firmato da Reverberi e Bardotti, è bislacco, canzonatorio (il titolo vorrebbe simulare il battito del cuore quando incontra una ragazza!), ma allineato ai suoni dei tempi. Passerà praticamente inosservato.
Nello stesso anno Dalla pubblica il suo primo album: 1999. Un guazzabuglio di matrice jazz-pop, che alterna tracce brillanti, come la title track e la raffinata "Tutto il male del mondo" (riproposta più di trent'anni dopo col nuovo titolo di "Amici"), a esperimenti velleitari ("Lsd", "Quando ero soldato").
L'album è un fiasco e nei quattro anni successivi Dalla appare confuso, indeciso se proseguire nella sua opera di dissacrazione dei feticismi canzonettari o cedere alle sirene dell'industria discografica.
Nel 1967 partecipa di nuovo al Festival della canzone insieme ai Rokes con "Bisogna saper perdere" e fa da spalla addirittura a Jimi Hendrix nel concerto al Piper di Milano. Brani toccanti come "Lucio dove vai" (una sorta di auto-confessione ironica) e "Il cielo" (se ne riporta al termine, un'esecuzione del 1968 a "La domenica del Villaggio", n.d.r.), dimostrano che il talento non l'ha abbandonato.
E la sua tenacia è premiata nel 1970 dal primo successo come compositore: Gianni Morandi incide la sua "Occhi di ragazza" e la porta in vetta alle classifiche. Il pezzo non vale granché, ma è grazie ad esso che l'Italia gli schiude le porte.
All'inizio del nuovo decennio, Dalla piazza subito una zampata. L'album Terra di Gaibola (1970), infatti, sfoggia alcune delle sue canzoni più graffianti del periodo - da "Il fiume e la città" a "Non sono matto (o la capra Elisabetta)", primo testo uscito dalla sua penna, musicato da Gino Paoli - più una efficace reinterpretazione di "Occhi di ragazza" e un paio di ballate suggestive come "Sylvie" e "Dolce Susanna", quest'ultima composta per un giovanissimo Ron.
Gli arrangiamenti dei fratelli De Angelis (meglio noti in seguito come Oliver Onions) sono calibrati. E i testi di autori come Sergio Bardotti, Gianfranco Baldazzi e Paola Pallottino ammantano il disco d'un lirismo trasognato, in cui la periferia bolognese di Gaibola assurge a luogo leggendario.
Al festival di Sanremo del 1971, Dalla si presenta un piccolo capolavoro come "Piazza Grande", scritta insieme a Ron e al duo Gianfranco Baldazzi-Sergio Bardotti, un'altra toccante storia di marginalità e solitudine.
Il successivo album Storie di casa mia (1971) conferma la sua vena a corrente alternata, tra piccoli gioielli di struggente pop melodico ("La casa in riva al mare", "Per due innamorati" e "Il gigante e la bambina", destinato a divenire uno degli hit dell'amico Ron), confusi quadretti naif ("Un uomo come me", "Il bambino di fumo") e piccole cadute di stile (il coro un po' pacchiano di "Itaca").
Ma a trascinare il disco è il singolo "4 marzo 1943" di cui sopra, benedetto tra i fiori di Sanremo e lanciato anche in Brasile (nella versione di Chico Buarque De Hollanda), in Francia (a cura di Dalida) e in Giappone. E' una fiaba agrodolce, firmata da Paola Pallottino e accompagnata solo dal violino "alticcio" di Renzo Fontanella: Dalla la interpreta con piglio da cantastorie, esaltandone lo spirito dissacrante (la canzone sarà vieppiù censurata) e bohémienne. Quel Gesù Bambino tra i ladri e le puttane assomiglia molto a quello del Vangelo, ma risulta certamente indigesto all'Italia bigotta dell'epoca. Una poesia stradaiola, proletaria, quella di Dalla, che troverà ancor più compiuta affermazione un anno dopo nel clochard della struggente "Piazza Grande", che farà inumidire gli occhi anche al compassato pubblico del Teatro Ariston.
Dalla è pronto per il grande salto.
Dalla è pronto per il grande salto.


